Vorremmo riprendere le questioni dell’innovazione degli orari e dell’organizzazione del lavoro anche alla luce di quanto accaduto durante la pandemia.
Luciano Pero. Riprendiamo la storia. L’orario industriale standard, fondato sulle otto ore giornaliere, si è affermato negli anni Venti del Novecento. Nell’Ottocento gli operai lavoravano anche dieci, dodici, quattordici ore al giorno. La formula otto per tre, “otto ore di lavoro, otto di svago e otto per dormire”, che era l’idea dei grandi utopisti inglesi dell’Ottocento, è andata progressivamente affermandosi tra fine Ottocento e inizio Novecento. L’orario industriale standard si è poi adattato benissimo al fordismo, perché otto ore erano una dimensione temporale tutto sommato buona per la catena di montaggio. L’unica vera innovazione di tutto il Novecento è stato il fine settimana libero: con l’affermazione della società dei consumi, in America e in Europa si è diffuso il week end con il sabato e la domenica liberi.
Negli anni Ottanta, il fordismo entra in crisi come sistema di produzione troppo rigido e inizia la diffusione di vari modelli diversi indicati come post-fordismo. Le grandi aziende verticalizzate si riducono, si ricorre a filiere e a piccoli produttori esterni specializzati, man mano che i prodotti di massa, automobile, vestiario, alimentare, si diversificano.
Inizia allora l’epoca della de-standardizzazione, cioè di una sperimentazione di orari parzialmente flessibili. I cambiamenti però sono modesti: si lavora sullo straordinario, sul “multiperiodale” e sulla flessibilità positiva e negativa legata alla stagionalità. Il punto più alto di questo periodo è la riduzione a trentacinque ore in Francia e Germania, di solito attuata con la formula sette ore per cinque giorni. In molti casi però il lavoratore poteva continuare a lavorare quaranta ore.
Contemporaneamente in tutta Europa si diffonde il part-time, principalmente nei settori dei servizi e più raramente nei settori industriali. Il part-time di solito si sviluppa come elemento di flessibilità.
Il caso dei supermercati, con uno sventagliamento delle forme di part-time che va dalle 16 alle 34 ore è il più evidente. È una prima evoluzione del fordismo anche dal punto di vista degli orari.
Dicevate che in questi ultimi anni, con l’introduzione dello smartworking e l’accelerazione causata dalla pandemia, abbiamo assistito a un salto di qualità.
Luciano. La digitalizzazione aveva già reso possibili forme di lavoro a distanza, il cosiddetto smartworking, con modalità molto diverse dal vecchio telelavoro. L’obiettivo non è più di avere l’ufficio in casa propria, ma di poter lavorare quasi dovunque, anche solo con un cellulare o un Ipad. Il Covid effettivamente è stato un catalizzatore perché milioni, forse miliardi, di persone hanno dovuto sperimentare una modalità di lavoro completamente nuova. Si deve lavorare a distanza, ma senza un orario e soprattutto spesso senza un capo, organizzandosi secondo obiettivi e risultati concordati. Questo strabiliante esperimento sta cambiando il modo di concepire il tempo e il lavoro.
Alla pandemia si stanno sommando altri cambiamenti introdotti dalla digitalizzazione. Ci sono ormai delle fabbriche gestite completamente da remoto: cementifici, centrali idroelettriche, centrali termoelettriche, apparati, impianti, parti di fabbriche alimentari; ad esempio, la fermentazione del vino. La digitalizzazione sta mettendo in crisi tutte le istituzioni del lavoro, non solo l’orario ma anche l’inquadramento professionale, perché compaiono nuovi ruoli e nuove competenze. Inoltre c’è la questione dei salari che quasi ovunque sono bassi. Penso che per i salari la causa prevalente sia la globalizzazione piuttosto che la digitalizzazione. Altri importanti fattori di cambiamento sono la gig economy, con varie forme di lavoro parzialmente asservite alle macchine (il famoso algoritmo); un altro grande fattore di cambiamento sarà la transizione ecologica, che provocherà molti cambiamenti ancora da verificare nella organizzazione del lavoro. In breve stiamo assistend ...[continua]
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