Il Gruppo Endress+Hauser si occupa, a livello globale, di fornitura di strumentazione di misura, servizi e soluzioni per l’ingegneria dei processi industriali. Il centro di produzione italiano è specializzato nella produzione di sensori di temperatura.
Nel 1997 la Endress+Hauser di Nesselwang in Baviera ha sottoscritto un accordo aziendale all’avanguardia rispetto all’orario flessibile. Da qualche anno gli orari flessibili sono entrati in vigore anche nella sede italiana. Potete raccontare?
Luciano Pero. Per me che studio gli orari di lavoro dal 1984, il contratto Endress+Hauser è parso subito interessante perché comincia a superare alcuni difetti dei sistemi di flessibilità in Italia. Infatti gli istituti di flessibilità, che sono previsti nel sistema contrattuale italiano, da un lato forniscono all’impresa alcune leve certamente molto forti, come la flessibilità positiva e negativa, il multiperiodale, lo straordinario comandato e quello incentivato, ma dall’altro presentano due limiti rilevanti. Il primo limite è che questi istituti sono molto rigidi per il lavoratore, che si trova a dover lavorare le ore flessibili "imposte” senza poter avere in cambio delle ore libere a sua scelta: infatti le giornate di recupero a scelta individuale sono pochissime. Il secondo limite è che le ore complessive che queste leve riescono a muovere, circa 92 ore/anno di flessibilità positiva e negativa nella maggioranza dei contratti nazionali, più gli straordinari, sono troppo poche rispetto alle esigenze competitive nella attuale economia internazionale. Il problema è che in Italia l’impresa ha sempre chiesto la flessibilità in maniera relativamente unilaterale e quindi si è trovata di fronte ai paletti posti dei sindacati. I sindacati hanno sempre reagito alla richiesta di unilateralità, mettendo dei tetti massimi alle ore flessibili, invece di chiedere in cambio un recupero a scelta concordato da parte del lavoratore. Questa soluzione è andata quasi bene negli anni Ottanta e Novanta, ma nell’ultimo decennio, con l’internazionalizzazione, ha iniziato a fare acqua. Per di più il governo, aggravando una situazione già critica, ha detassato gli straordinari, che notoriamente riducono la produttività. Sarebbe stato più opportuno detassare gli istituti di flessibilità già previsti nei contratti nazionali. Quindi oggi ci troviamo in un circolo vizioso: la poca flessibilità deprime la produttività, la scarsa produttività a sua volta comprime i salari e i salari bassi spingono i lavoratori a preferire gli straordinari, che deprimono l’intero sistema.
L’accordo sottoscritto alla Endress+Hauser nella sede italiana fornisce spunti molto interessanti perché mette in campo uno scambio a somma positiva: l’impresa ha diritto alla flessibilità per competere sui mercati mondiali e i lavoratori si riappropriano di quella stessa flessibilità per le proprie esigenze individuali, di qualità della vita.
Per noi poi è molto interessante anche l’accordo della fabbrica tedesca. Nell’ultimo decennio, grazie a questo tipo di accordi, in Germania c’è più "flessibilità buona” (per le imprese e per i lavoratori) di quanta non ce ne sia in Italia e credo che questo sia uno dei fattori di successo dell’impresa tedesca. Forse si comincia a capire come uscire dal circolo vizioso.
Possiamo allora spiegare il contratto tedesco, visto che tutto è partito da lì?
Roberto Comotti. Leggendo il contratto sembra che gli operai tedeschi non prendano soldi per la flessibilità, ma che ci sia uno scambio sul piano della qualità della vita. Vorrei capire se per loro è più importante percepire uno stipendio maggiorato oppure...
Kurt Dittrich. La questione è se ai tedeschi piace di più il te ...[continua]
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