Da tempo studi l’impatto delle nuove tecnologie sull’organizzazione del lavoro. In questi mesi di lockdown, aziende e lavoratori sono stati costretti a un’accelerazione sul piano della transizione al digitale e del cosiddetto smartworking. Come ti sembra sia andata?
In genere quando si parla di smartworking si pensa sostanzialmente al lavoro da remoto con la mediazione delle tecnologie della comunicazione. Il fatto è che questa idea dello “smart” include anche delle precondizioni organizzative che non riguardano soltanto gli aspetti di comunicazione. Credo che in questi mesi ce ne siamo accorti tutti. Fino a poco tempo fa la nostra fatica era quella di far capire che non bastava stare a casa o stare in giro per parlare di un’organizzazione “smart”, intesa come quella che consente alle persone di lavorare esattamente da dove sono, che si trovino a tremila chilometri di distanza oppure nella stanza a fianco. Tutto questo ha bisogno di una preliminare organizzazione dei processi di lavoro adattata o comunque sintonizzata sul digitale.
Ora nella pubblica amministrazione si parla molto di dematerializzazione e digitalizzazione dei processi, di semplificazione, cioè di trovare delle procedure organizzative che consentano di tenere in rete le persone, mettendole in condizione di accedere agli archivi e di potersi muovere nella catena fornitore-cliente in modo integrato.
Ecco, da questo punto di vista, il lockdown ha ben evidenziato i requisiti necessari affinché lo smartworking possa funzionare. Nelle aziende o nei pezzi della pubblica amministrazione che non si erano organizzati in modo adeguato, le strozzature sono risultate immediatamente chiare, per esempio nella mancata assegnazione di alcune deleghe per l’autorizzazione di una certa pratica o nella non previsione della firma digitale.
Poi, certo, alcuni studiosi hanno puntualizzato come durante il lockdown non ci sia stato vero “smartworking” bensì “homeworking”. Ora, sicuramente le persone non hanno potuto usufruire di tutte le possibilità offerte dal lavoro a distanza. Intanto per il fatto che erano tutti nelle loro case. Però, dal punto di vista organizzativo, l’impatto è stato veramente travolgente. Questa è un’esperienza che secondo me ha lasciato il segno. Per alcune organizzazioni è stato proprio uno shock di consapevolezza di quello che c’è da fare dal punto di vista della transizione al digitale.
Dicevi di essere rimasta anche un po’ disorientata...
È così. Ho visto che alcuni colleghi hanno reagito scrivendo cose molto sensate. Io sono rimasta spiazzata. Chiunque conosca il mio lavoro, sa che io sono sempre stata, non solo molto favorevole, ma anche piuttosto ottimista (ero stata pure criticata per questo) sul rapporto delle donne con le tecnologie.
Ricordo ancora i volantini dell’Flm all’Italtel Milano quando ci si prefigurava questa visione distopica delle donne in telelavoro che, con i bambini in braccio, giravano la pentola del risotto...
Ecco io invece ho sempre pensato che le tecnologie fossero potenzialmente “amiche”, fossero human-friendly, e sono ancora convinta che rappresentino una grossissima opportunità. Non me la sento neanche più di dire “in particolare per le donne”, credo siano una grande opportunità per tutti.
In queste settimane devo dire che ho un po’ vacillato su questa visione tutto sommato ottimista. Cioè resto dell’idea che vada bene che si aprano delle possibilità interessanti per tutti. A certe condizioni però. Ecco, quando ho cominciato a riflettere su quali siano queste condizioni mi si è aperto veramente un mondo.
Dico subito che non ho ricette. Forse non è neanche importante averle in questa fase. Ho piuttosto degli interrogativi aperti, delle questioni.
Un primo tema è quello dei cosiddetti blurring boundaries, dei confini labili, che è una retorica (almeno per me) che ha cominciato a prendere piede da qualche tempo a questa parte sul fatto che le tecnologie confondono i confini tra vita personale e vita d ...[continua]
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