Elena Widmann, 30 anni, bolzanina, laureata in filosofia a Bologna, insegna seconda lingua nelle scuole superiori di lingua tedesca. Ha terminato da poco una ricerca su "Alto Adige/Südtirol: la fatica dell’interculturalità dentro le tensioni di una terra di confine".

Il mio status di supplente annuale mi ha finora costretta ad una sorta di ’nomadismo’ professionale, cioè a dover cambiare ogni anno sede di lavoro. Assieme al disagio che questo ha comportato per me e per gli alunni, che mi avevano con sé per un solo anno scolastico, senza prospettiva di continuità e crescita ulteriore sia sul piano relazionale che su quello didattico, ho avuto il vantaggio di poter conoscere diverse realtà scolastiche, sociali e ambientali della provincia, prima a Brunico e Merano, poi a Bolzano.
Come insegnante di seconda lingua, nel corso di questa esperienza mi sono a volte sentita molto esposta alle tensioni etniche ancora così presenti nella nostra terra. Ho provato la difficoltà del confrontare la mia fragile e ibrida identità di italiana altoatesina con la forza, la compattezza e la vitalità delle tradizioni, degli usi e dei costumi, del dialetto degli alunni valligiani.
A questo proposito vorrei raccontare un episodio che mi sta particolarmente a cuore, che risale alla supplenza di due anni fa in un istituto tecnico di lingua tedesca di Bolzano. Si trattava di una classe del triennio composta di 16 alunni, a maggioranza di madrelingua tedesca, con le sole eccezioni di 3 ladini della Val Badia e un mistilingue, provenienti tutti da piccole località situate nelle valli Venosta e Pusteria, dove gli italiani si contano sulle dita.
A settembre mi sono sentita "accolta" con grande ostilità. Ricordo in particolare le scritte provocatorie alla lavagna, il primo giorno di scuola, che dicevano: "Tirol den Tirolern", "lieber tot als grün-weiß-rot" e "nur ein toter Walscher ist ein guter Walscher" ("Il Tirolo ai tirolesi", "meglio morto che verde-bianco-rosso", "solo un italiano morto è un buon italiano"). Il loro livello di conoscenza della lingua italiana era davvero desolante, per non parlare delle forti resistenze e scarse motivazioni.
Gran parte dei ragazzi non erano mai stati sotto Trento, e lì solo per via della visita militare. Nei primi mesi di lavoro parte dell’"ala dura" della classe (quella formata dai sedicenti "irredentisti pantirolesi") sembrava decisa a rifiutarsi di entrare in comunicazione con me. La situazione era aggravata dal fatto che Gianluca, il mistilingue, si rivelava il più renitente di tutti. Capii solo in seguito il perché. Gianluca, padre di origini friulane nato a Latina, veniva dal piccolo paese materno della Val Pusteria. A lui mi ero fin dai primi giorni inconsciamente aggrappata, esigendo impegno prima e più che da tutti gli altri, nella speranza che facesse da "ponte" fra me e loro. In realtà, Gianluca -per i suoi compagni Lukas- aveva il suo bel da fare in classe per nascondere le tracce di quella sua "differenza" di sudtirolese plurilingue, con forte componente italiana, che il suo nome di per sé palesava. Ed io proprio in quella parte gli chiedevo di esporsi, in quella di italiano, alla quale speravo di potermi attaccare per affinità, per poi integrarmi, al suo seguito, nella classe. Ma Gianluca non era affatto integrato nella classe. Non poteva essermi d’aiuto ed io, nel mio bisogno di sentirmi accettata e accolta dai ragazzi, faticavo a capirlo. Accadde così che, dall’oggi al domani, mi irrigidii tutta, divenni una sorta di gendarme in gonnella: non c’era altro da fare, mi dicevo, che rispondere alla loro ostilità con la forza, con l’autorità. Prima di entrare in classe serravo le mascelle, mi oscuravo tutta in viso e, carica di rabbia e di frustrazione, prendevo a castigarli a suon di voti bassi e note disciplinari sul registro. Molti interventi punitivi riguardavano proprio Gianluca, il quale boicottava come poteva le mie lezioni, arrivando sistematicamente in ritardo, chiudendosi completamente all’ascolto, mostrando di ignorare la mia presenza. Con strafottenza, mi sembrava. Paradossalmente proprio lui era diventato il mio principale problema in quella classe.
A questo punto era tale il peso dell’insuccesso personale che faticavo perfino a parlarne coi colleghi. Le colleghe di italiano, in particolare le nuove arrivate, sembravano peraltro navigare in acque non migliori delle mie.
Un giorno accadde però un miracolo: ebbi infatti un’intuizione grandiosa. Senza capire e ...[continua]

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