Dopo il fallimento del vertice di Seattle, si parla di globalizzazione politica piuttosto che economica...
In effetti, la globalizzazione non è solo un fenomeno statistico, dato dalla percentuale di commerci ed investimenti globalizzati sul totale. Certo, si tratta di dati importanti, ma ritengo che la globalizzazione sia anche una rappresentazione, una costruzione del nostro immaginario. Ora, la mondializzazione, così come noi ce la rappresentiamo, mi sembra costituita da cinque aspetti. Il primo è dato da quel che Walter Benjamin chiamava "ciò che è simile nel mondo", ossia il fatto che ormai i centri commerciali, le forme architettoniche, gli aeroporti, i centri urbani, i vestiti, la musica tendono ad essere ovunque uguali. Per cui, davvero, oggi nessun posto al mondo ci è totalmente estraneo. Tutto ha l’aria di un déjà-vu. Il secondo aspetto è costituito dall’imporsi di una vita quotidiana "mondiale". Tutti i giorni abbiamo notizia di catastrofi, incidenti aerei, matrimoni regali, che avvengono qua e là per il mondo. Questo fa nascere il sentimento di appartenere a una comunità mondiale, spontanea perché non fondata su di un progetto politico. Un terzo aspetto è rappresentato dalla mondializzazione degli affetti e delle emozioni. La morte di Lady Diana, e quel che ne è seguito, è un esempio di questa mondializzazione delle emozioni. Un quarto aspetto è dato dall’espandersi a tutte le sfere della vita sociale della logica di mercato, per cui oggi pensiamo che tutto si possa vendere e acquistare, non solo i beni di consumo. A monte, vi è l’idea della libera scelta assoluta: non essendovi più valori trascendenti né utopie politiche l’unico valore condiviso mondialmente è il Just do it, ossia la libera scelta individuale e momentanea. Adesso scegliamo i valori come se ci trovassimo all’interno di un supermercato dei simboli dove prendiamo un prodotto, che può essere l’identità politica per esempio, lo consumiamo e, quando non ci piace più, passiamo ad altro. E’ il principio della reversibilità delle scelte: oggi faccio una scelta, domani un’altra, casomai opposta, e non debbo fornire giustificazioni sul perché cambio. Cambio perché non mi piace più. A ciò si lega il bisogno di accedere immediatamente alle cose, per cui si ha ora quasi un’insofferenza per le deviazioni, un rifiuto delle mediazioni: Internet è abbastanza rivelatore di questo bisogno.
Infine, ultimo aspetto, il costituirsi di un discorso comune mondiale, per cui da un paese all’altro si parla delle stesse cose: crisi dello stato, trasparenza della politica, ruolo delle donne nella società, violenza nella scuola... Tanto per fare un esempio: recentemente, in Messico, rimasi colpito dal fatto che il tema all’ordine del giorno era la presenza delle donne nel sistema politico. E’ come se ci fosse un’agenda comune planetaria, per cui si ha l’impressione di vivere problemi comuni.
Quindi, chi costruisce questo immaginario svolge un ruolo politico importantissimo...
Certamente. E’ evidente che l’immaginario della mondializzazione è costruito da determinati attori economici e sociali. In particolare, credo che un ruolo notevole sia svolto dagli uffici di consulenza, che fissano norme, condivise e accettate, in tutti i campi dell’agire economico, dalla contabilità all’organizzazione aziendale. Il ruolo che hanno assunto pone un serio problema politico, perché le norme che questi uffici introducono sono private, ma, essendo accettate universalmente, è come se diventassero pubbliche. Qui, però, non siamo più nell’immaginario, ma nella materialità dei rapporti economici e di potere.
L’immaginario della mondializzazione quali conseguenze sociali genera?
Una delle conseguenze più importanti è legata alla nostra dimensione del tempo. L’estensione della logica di mercato, per cui vale il prezzo attuale di un prodotto, frutto dell’incontro momentaneo della domanda e dell’offerta, a tutta la sfera sociale fa sì che ora noi ci pensiamo solo nella modalità del presente e dell’immediato. Tutta la nostra vita sociale ruota intorno alla modalità del presente, dell’hic et nunc. Non arriviamo più a pensarci in una dimensione storica, non sapendo più situarci in rapporto al passato o al futuro. ...[continua]
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