Teki Bokshi, avvocato kosovaro di Peja/Pec, è oggi impegnato a tutelare i diritti dei prigionieri kosovari albanesi detenuti nelle carceri serbe.

Puoi raccontare come mai oggi in Serbia c’è ancora un numero consistente di detenuti kosovari albanesi?
Quando è stato firmato l’accordo di Kumanovo, il 10 giugno 1999, il giorno precedente l’arrivo del contingente Kfor in Kosovo, le autorità serbe hanno trasferito tutti i prigionieri detenuti in Kosovo nelle carceri serbe.
Si trattava di circa 2000 prigionieri, tra serbi e albanesi. Ma anche prima dell’accordo di Kumanovo molti albanesi erano già stati imprigionati in Serbia. Per cui, all’inizio erano all’incirca 2250 gli albanesi detenuti nelle carceri serbe.
Tra questi prigionieri molti non avevano avuto alcun processo, altri poi non erano nemmeno stati informati della ragione per cui erano stati incarcerati. Secondo il nostro codice, una persona non può essere trattenuta per più di 72 ore senza una precisa accusa formale. Invece questi prigionieri sono stati tenuti in carcere per mesi in questa condizione.
A complicare ulteriormente la situazione legale di questi prigionieri è accaduto che durante l’intervento della Nato, la Serbia ha introdotto la legge marziale, accordando alla polizia nuovi e maggiori poteri. In particolare, uno dei decreti ha stabilito che la polizia in assenza di accuse precise, potesse tenere in custodia un prigioniero per un mese e non più solo per 72 ore.
Questo trasferimento ha creato una situazione quanto mai caotica anche sul piano dell’iter giudiziario…
All’inizio c’era un caos totale perché tutte le corti della Serbia avevano cominciato a tenere processi contro questi prigionieri, senza alcun coordinamento tra di loro. Successivamente, si è stabilito una sorta di “gemellaggio” tra la corte di competenza in Kosovo e la corte di un particolare distretto in Serbia. Per cui oggi ogni corte del Kosovo ha un “parallelo” in Serbia; per esempio, gli albanesi processati dal tribunale di Pristina oggi sono sottoposti alla corte di Nis; quelli di Peja fanno riferimento alla corte di Leskovac; quelli di Prizren a Pozarevac.
Le autorità serbe hanno operato quel trasferimento per evitare di sottostare alla legge, che avrebbe previsto che i prigionieri fossero sentenziati nei vari tribunali del Kosovo.
Con quali accuse sono stati arrestati questi kosovari?
La maggioranza dei prigionieri è stata accusata di cospirazione sediziosa. E tutti sono stati condannati in quanto membri dell’Uck: non servivano altre prove della loro colpevolezza.
In realtà, solo un numero minimo tra quelli condannati per terrorismo ha effettivamente compiuto tali azioni.
C’è stato addirittura un maxiprocesso che ha visto coinvolto un gruppo di ben 144 prigionieri, noto come il “gruppo di Djakova”. Sono stati tutti condannati per atti di terrorismo compiuti durante la guerra, e in base alla corte marziale che è molto più dura di quella ordinaria. Sono stati condannati per un totale di 1632 anni di pena da scontare in prigione, e la pena individuale loro comminata si aggira tra i 7 e i 13 anni di prigione.
In questo caso è interessante anche sapere che la prova determinante è stata quella della presenza di polvere di paraffina, in quanto è uno dei componenti della polvere da sparo; si tratta però di un metodo non più usato nel resto del mondo, perché non è affidabile; molti prodotti infatti contengono paraffina, anche quelli per il make-up, o le sigarette; la paraffina non può mai rappresentare la prova principale, perché la sua presenza non dimostra affatto l’avvenuto uso di armi. Durante il processo gli stessi periti balistici della polizia hanno espresso perplessità sull’effettiva affidabilità di questa prova.
E poi voglio dire, la maggior parte dei “colpevoli” di questo gruppo sono professori universitari, maestri, intellettuali, insomma gente che non fa uso di armi. Per cui, abbiamo detto: va bene, se volete condannarli, fatelo, ma nessuno crederà alla correttezza di questo processo; nessuno crederà che queste persone siano dei terroristi.
Ora stiamo preparando un appello e speriamo che la Corte Suprema di Belgrado annulli la sentenza emessa dal tribunale di Leskovac, perché in situazioni analoghe, come nel caso di Flora Brovina, o del gruppo di Rahovec, la Corte Suprema ha cancellato la sentenza.
Il problema è che allo stato attuale in Serbia i tribunali e la giustizia non sono indipendenti e anche nel caso del processo contro il “gruppo ...[continua]

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