Lei si occupa di teorie della cittadinanza e segue la vita associativa degli stranieri e dei giovani di seconda generazione. Da più parti si sostiene che il modello universalista francese è ormai in crisi. Può spiegarci?
E’ stato anche studiando la questione dal punto di vista dell’associazionismo che ci si è resi conto di come il modello universalista francese fosse in crisi. Le ragioni sono diverse. Una è che le stesse forme di espressione che aspirano ad essere forme di partecipazione di cittadinanza non rientrano più in questo modello universalista. Ad esempio c’è un tentativo di negoziazione della cittadinanza portato avanti da associazioni religiose, quasi esclusivamente musulmane.
Tanti giovani oggi dicono di essere fieri di essere musulmani, ma allo stesso tempo si dicono fieri di essere marsigliesi o di Tolosa, o di Lione, ossia di considerarsi cittadini. Quindi non propongono un modello alternativo: si riconoscono in un modello di cittadinanza, che però non corrisponde al modello universalista perché è il risultato di un bricolage, di un miscuglio fra appartenenze etniche e modalità di definirsi cittadini.
Un altro aspetto di crisi è testimoniato, ma anche causato, dal fallimento delle associazioni laiche, civiche e non religiose, impegnate nella lotta all’esclusione. Penso a Sos Racisme, per esempio, che faceva un discorso multiculturalista, o alle associazioni regionaliste come “la Radio berbera”, o Radio Beur FM, dall’approccio più comunitarista o ancora a France Plus, assimilazionista. Ebbene, tutte queste associazioni sono state assimilate dallo Stato, proprio con l’obiettivo di creare un terreno di collaborazione per la lotta contro l’esclusione. Il dato interessante è che in quest’operazione, lo Stato si è servito di ausiliari già pratici di politica di mediazione sul campo, ma attraverso l’uso delle reti comunitarie piuttosto che di reti universaliste, statali. Quindi si è creata una forte ambiguità, che a mio parere spiega il loro fallimento. Nel rapporto con lo Stato, hanno dato un’immagine di associazioni laiche, civiche, portatrici di valori universalisti; dall’altro, però, nel rapporto con i propri membri, hanno adottato una politica etnica, comunitaria, di gruppo. Ne è risultata una fusione tra i due aspetti, con una mistificazione reciproca.
Un terzo elemento di crisi del sistema assimilazionista-universalista francese è che la posizione francese è marginale rispetto al contesto europeo, e quindi subisce costantemente una pressione da parte degli altri paesi, del Consiglio d’Europa, della Comunità europea, da parte di tutta una serie di istituzioni, affinché assuma una linea più multiculturalista. Insomma, siamo considerati repubblicani, giacobini, un po’ arcaici con il nostro modello…
Quali sarebbero i limiti di questo modello?
Effettivamente il modello assimilazionista, repubblicano, egualitario, laico, non regge più in una situazione in cui le persone che restano escluse dal sistema sono tante e tendono a crescere. Ora, gli esclusi sono persone che non godono della cittadinanza, che non godono dell’uguaglianza dei diritti. E in effetti, sia in senso razziale che sociale, non possiamo certo dire che ci siano pari opportunità in Francia. Per esempio se si vive in un quartiere emarginato ci saranno scuole frequentate solo da bambini poveri e di origine straniera; se poi si abita in un certo quartiere sarà difficile trovare lavoro perché si sarà identificati come provenienti da una zona degradata.
C’è un’apparente uguaglianza di diritti, ma in effetti l’uguaglianza delle opportunità non funziona, o non funziona più, di fronte all’esclusione urbana.
Tra l’altro, questa esclusione dal sistema di cittadinanza a sua volta favorisce il fatto che nelle periferie urbane, a fare veramente un lavoro sul campo siano associazioni etniche e religiose (comprese le sette), con una serie di offerte quindi non repubblicane, che vanno ad alimentare forme di espressione che, in particolare nei giovani, sfociano in violenza e atti di inciviltà.
Questo è un ulteriore ...[continua]
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