Ezra Nahmad, fotografo, pittore, vive e lavora a Parigi. Nato nel 1952 in Galilea, vicino a Nazareth, da genitori egiziani, in una famiglia cosmopolita-mediterranea; liceo a Parigi, seguito da un lungo soggiorno in Israele, quindi studi universitari e attività artistiche ed editoriali in Italia.

Oggi si vede la gravità della politica degli insediamenti. Ma secondo i governi israeliani, cosa dovevano essere? Dovevano forse costituire la prima tappa di un definitivo assorbimento del West Bank?
Secondo me questa politica non è mai stata concepita in modo sistematico; in certi momenti l’obiettivo era quello, in altri no; secondo me c’era l’idea di annessione totale. E’ difficile prendere Israele come un blocco monolitico, e pure il contesto storico è importante: il ‘48, il ’67, o il ‘90 non sono affatto uguali.
Ma la storia di Israele è legata inscindibilmente all’idea di colonizzazione?
Non c’è dubbio. La colonizzazione è un fenomeno che appartiene alla storia di Israele, a quella dei territori occupati, e ha caratterizzato la politica praticata da tutti i governi, laburisti o di destra; insomma è una costante israeliana. Solo l’approccio è diverso: i laburisti non hanno mai messo avanti l’idea di una Grande Israele, un senso di appartenenza assoluta, l’idea che il Golan, i territori occupati, Gaza, appartenessero a un’entità israeliana storica, mitica. La differenza sta lì; i laburisti sono stati molto più pragmatici, hanno agito secondo le occasioni, invece la destra ha fatto i grandi discorsi. Ma è difficile separare la storia d’Israele dall’idea di colonia. Bisogna poi vedere come la si intende. La colonia come idea, infatti, nasce in Grecia come porto di commercio...
Ammesso che, in un modo o nell’altro, questi coloni debbano rientrare, pensi che la società israeliana sia in grado di riassorbirli senza drammi?
Il problema non è quello di riassorbirli, perché Israele è una spugna, ha riassorbito tutto, gente talmente diversa, baltici con iracheni… ha una capacità di assimilazione veramente originale, forte. Il problema semmai può essere quello di avere dentro la società una fascia di gente che vive con dei miti estranei a un certo tipo di realtà e anche quello di assorbire un tipo di violenza che la gente si porta dentro.
Pensi che i coloni rientreranno?
Non lo so, rientreranno se nasce uno Stato palestinese decente, se no rimarranno lì.
Com’è la situazione dei vostri soldati?
E’ molto semplice: non basta avere una bella divisa, un fucile e la tecnologia; sono esseri umani e se gli esseri umani non sono convinti o non lo sono abbastanza... I soldati sono stanchi di fare la guerra, e anche la gente è stufa, il che non comporta certo che ne vengano fuori conclusioni razionali, giuste, buone, sane. Però i soldati che vanno nei territori occupati hanno paura, tu li guardi e vedi che hanno paura, sono stanchi, non ce la fanno. Tu puoi avere un carro armato ipertecnologico, ma se di là hai un ragazzo che gira con una bomba sul corpo sei fregato. Loro hanno davanti gente che è disposta a morire, e questo significa che siamo proprio arrivati a un punto limite. Se dei ragazzi, che per fortuna sono una minoranza, sono arrivati a questi estremi, cosa puoi fare? Dieci ragazzi disposti a morire ti mettono in ginocchio una città. I soldati israeliani sono disposti a dare tre anni della loro vita, ma non certo a salire su un’autobomba; per fortuna sono ancora normali.
Qual è la soluzione secondo te?
Credo che a questo punto anche la creazione di un mini Stato sia ormai superata, quindi bisognerà inventare qualcosa di nuovo.
E cioè?
Cercare una soluzione d’integrazione, di una maggiore integrazione tra Israele e il Medio Oriente, perché ormai...
Questo è il vecchio progetto di Peres.
La visione di Peres è giusta, nello spirito, ma troppo occidentale ed europea. Bisogna poi vedere come lui intenda realizzarla; queste storie di corridoi, “io ti do questo pezzo, tu mi dai quell’altro”, “io ti do due centimetri, allora definiamo dove cominciano questi due centimetri, no cominciano lì all’incrocio”... è una specie di labirinto da cui non si esce più.
Fatto sta che ormai in questo pezzo di terra c’è troppa gente, troppi gruppi uno dentro l’altro: non è possibile separarli, non più. Vent’anni fa quando erano tre o quattro milioni potevano separarli, ormai è troppo tardi. Qui fra poco non c’è più spazio neanche per le strade, per i parcheggi... Come si fa a separare queste persone? O accettano d ...[continua]

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