Tu pensi che le ragioni profonde della crisi della sinistra stiano nel ritardo a capire la nuova composizione sociale del lavoro indotta dalla globalizzazione e dalla crisi del fordismo...
Siamo ormai nella fase della ricerca di nuove forme post-fordiste di organizzazione sociale. L’espansione economica a livello globale ha fatto saltare “il tavolo per i negoziati”, cioè il luogo del capitalismo nazionale in cui le grandi tecnostrutture concertavano la difesa degli interessi prevalenti, spesso corporativi. Qualsiasi decisione oggi può, nella globalizzazione, ritornare in declinazioni assolutamente impreviste. Siamo entrati, cioè, in una fase generale di ingovernabilità del mondo. Le guerre, il terrorismo, ne sono i risvolti più vistosi, ma la conseguenza più generale è l’incapacità del sistema complessivo di affidare alla politica un ruolo regolatore. Nel post-fordismo questa capacità di regolazione non c’è più, nella società globale c’è una intrinseca impossibilità di legare a confini e a comportamenti predeterminati le persone, le regioni, gli stessi stati. Ormai viviamo in un sistema aperto, dove i capitali, le persone e le cose si muovono, si spostano e quindi sono sempre meno soggetti a quel potere regolatore che invece è ancora territorializzato.
D’altra parte un potere regolatore globale è di là da venire; per adesso siamo alle dichiarazioni di guerra contro il “fronte del male”, quindi siamo ancora un po’ lontani.
Ora, qual è il risultato di questo processo? E’ lo scioglimento dei vecchi legami. Questi, anche a livello dei singoli stati, delle regioni, delle singole organizzazioni sociali, delle stesse aziende, erano basati sul fatto che insieme si governava il rischio e che la politica, essendo fuori mercato e avendo, quindi, un grado di libertà maggiore rispetto a chi operava nel mercato, interveniva sulle situazioni impreviste, eccezionali.
Tutto questo non c’è più, il che sembra molto negativo, ma in fondo non lo è, da qui si muovono anche dinamiche positive.
Le persone sono costrette in un certo senso a riprendere in mano il proprio futuro…
Di fronte alla difficoltà a governare la situazione complessiva nasce dal basso il bisogno di darsi da fare. Darsi da fare significa fondamentalmente due cose, che esigono entrambe un processo di costruzione. In primo luogo significa investire, fare degli sforzi personali, aziendali, di paese, di territorio, per costruire delle strutture materiali e immateriali che permettano di affrontare il futuro con maggiori possibilità, con un posizionamento migliore. In secondo luogo significa condividere insieme i costi e i rischi di questo investimento, creando un legame sociale che permetta di affrontare questo passaggio non individualmente e in solitudine. Si tratta di ricostruire un tessuto sociale che è venuto meno. Solo che questa ricostruzione non viene più fatta all’insegna della politica e quindi di un potere regolatore che sta fuori, in alto, ma all’insegna dell’autoregolazione dal basso: questo investimento ha bisogno di sostegni, legami, strutture, che vengano ricostruite a partire dall’iniziativa dei soggetti stessi.
E’ molto importante capire che una società più fluida, come quella che aumenta gli spazi di azione individuale e collettiva, di invenzione dal basso del mondo in cui si deve vivere, è anche una società che ha bisogno di maggiore costruzione sociale e condivisione. Non esiste fluidità senza condivisione.
Quindi non ha senso ostacolare, battersi contro quella che tu chiami fluidità e che altri chiamano flessibilità?
Tutta la disputa sulla flessibilità è già invecchiata di 50 anni, perché è ancora tutta dentro le categorie fordiste: ci si immagina che la flessibilità sia la possibilità di sciogliere più facilmente i legami per decreto, mentre i vecchi legami si stanno sciogliendo nelle cose.
Ormai l’economia va avanti in modo tale che nessuno è più in grado di garantire niente a nessuno. Quindi lo scambio politico tra sindacati e organizzazioni imprenditoriali, su cui si reggeva lo statuto dei lavoratori, i vecchi diritti del lavoro, gli stessi contratti nazionali, tende ad avere una base sempre più debole. Nessuna azienda, dalle grandi alle piccole, è sicura di quanti dipendenti avrà tra sei mesi, e forse le grandi sono meno sicure ...[continua]
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