Andrea Proto Pisani, studioso del processo civile, è ordinario all’Università di Firenze e tra i principali collaboratori della rivista “Il Foro Italiano”. È stato membro del C.S.M.

Vorremmo partire con una domanda che riguarda i principi. Lei è uno studioso di processo civile, ha studiato da vicino i comportamenti del Csm, recentemente è intervenuto anche sul problema dell’indipendenza del Consiglio di stato. In sintesi, quali dovrebbero essere le categorie fondanti di un vero giudice e quali discrepanze può riscontrare lei, nel nostro ordinamento attuale rispetto a queste categorie teoriche?
Il giudice, come qualità soggettive, deve essere terzo e imparziale, altrimenti non è giudice; deve poi far parte di un ordine, di un corpo, a cui sia assicurata l’indipendenza e l’autonomia; infine, il giudice dovrebbe garantire una professionalità elevata, in quanto indipendenza e autonomia, terzietà e imparzialità, si realizzano soltanto se lui è soggetto unicamente alla legge, ma per essere soggetto unicamente alla legge deve essere capace di individuarla e interpretarla con correttezza.
In Italia, la situazione della giurisdizione è sicuramente avanzata sul piano ordinamentale: sono assicurate l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine giudiziario, sono anche sufficientemente assicurate la terzietà e l’imparzialità del giudice; sono invece estremamente ridotte le garanzie di professionalità.
Cosa occorrerebbe fare su quest’ultimo versante?
Qui le cause sono di carattere storico. Noi abbiamo ereditato un ordinamento strettamente gerarchico e piramidale: l’ordinamento giudiziario del 1942 prevedeva una sottomissione sostanziale dei giudici sottordinati ai giudici sovraordinati, in quanto la carriera progrediva attraverso concorsi interni, gestiti dai secondi. In questo modo si assicurava la non devianza dei giudici sottordinati, indotti a tenere comportamenti coerenti con quelli pretesi dai giudici sovraordinati.
Questo ordinamento giudiziario è stato smantellato, a mio avviso correttamente, perché in contrasto con un’affermazione della Costituzione secondo cui i giudici si distinguono unicamente per le funzioni e sono soggetti unicamente alla legge, e non al potere dei capi degli uffici giudiziari.
Però, a seguito di questo smantellamento, certamente benefico, avvenuto negli anni ’60 e ’70, si è creato un vuoto legislativo. Attualmente il giudice entra in carriera a 25-28 anni e nel giro, direi, di 23-28 anni riesce a percorrere tutta la carriera -da magistrato di tribunale a presidente di sezione della Corte di Cassazione- senza subire, sostanzialmente, alcun controllo di professionalità. Questo è il problema più grave.
L’obiezione potrebbe essere che il controllo sulla professionalità potrebbe veicolare un controllo sull’attività giurisdizionale…
Qui si tratta di organizzare innanzitutto un’efficace scuola della magistratura, che in Italia non è stata mai realizzata per difetti dell’esecutivo e del legislativo. Una scuola che possa assicurare aggiornamenti professionali ed esprimere anche momenti di controllo della professionalità, effettuati non soltanto da parte di magistrati, ma anche da parte di soggetti esterni. Nel momento in cui si prevedessero collegi composti non soltanto da magistrati ma anche da avvocati, docenti universitari, operatori del diritto in genere, allora il rischio di un magistrato sottoposto al potere del magistrato sovraordinato e quindi costretto a seguirne gli orientamenti, in gran parte verrebbe meno.
Però, per fare questo, il punto principale è quello dell’organizzazione di una seria scuola della magistratura. C’è in quasi tutti gli altri paesi, quella più famosa è quella francese.
In Italia si fa anche molto, ma sulla base della buona volontà del Consiglio Superiore della Magistratura che organizza corsi d’aggiornamento, la partecipazione ai quali, però, non è obbligatoria e non vale nulla ai fini della carriera del magistrato.
Ma c’è una resistenza interna dei giudici rispetto a una prospettiva che non segua il mero criterio dell’anzianità?
Io direi che è difficile pensare che siano i magistrati stessi a favorire la sottomissione a controlli. E’ improbabile che una categoria scelga di dotarsi di controlli sulla professionalità; questo dovrebbe essere compito del potere politico. Il potere politico ha smantellato il sistema preesistente senza sostituirlo con un altro. D’altra parte già oggi non che i magistrati non siano sottoposti ad alcun tipo di controllo ...[continua]

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