Hawa Mohamed Ali, 37 anni, somala, oggi vive e lavora a Napoli.

Così sono partita, in aereo, Mogadiscio-Roma, 8 ore di volo. All’aeroporto non mi aspettava nessuno. Sono arrivata alla stazione Termini alle 7.30 di mattina, e sono rimasta lì tutta la giornata; era un altro mondo. Ho visto il Colosseo e poi i ragazzi che vendevano i fazzoletti per strada, e altre persone che chiedevano la carità. Non era come mi aspettavo.
Sono arrivata a Napoli verso le 7 di sera, era ancora caldo, era fine agosto, però per me era freddo. L’uomo che era con me è andato in un albergo in Piazza Garibaldi, mi ha detto: “Aspettami qui, poi ti porto dove stanno i somali”, così sono rimasta lì davanti e c’erano tutte queste macchine, e nella mia testa frullavano tutte le cose che mi avevano detto su Napoli, insomma ero impaurita. Alla fine ho chiamato la mia amica e appena ho sentito la sua voce sono scoppiata a piangere.
Siamo poi andati alla galleria Umberto, dove a quell’epoca si riunivano i somali; arrivata là ho trovato anche un’altra amica con cui avevo fatto le scuole e neanche mi ha salutato. Mentre stavo lì ho visto pure un ragazzo che abitava vicino a me in Somalia, ma anche lui è subito scappato via perché doveva andare a lavorare. Sono arrivata infine a casa sua. La notte non abbiamo dormito. A quel tempo non c’erano case in affitto, si entrava in queste case la sera, si dormiva, e la mattina presto si usciva e si stava in giro. Dopo un mese e mezzo ho iniziato a cercare lavoro, l’ho trovato come domestica, pagavano pure poco, 350 mila lire al mese. Del resto io non avevo documenti…
Alla fine è uscita una legge, prima della Martelli -io sono arrivata nell’86- così ho avuto un permesso di soggiorno e sono rimasta nella casa di questa famiglia quasi 5 anni. Era un posto che mi avevano trovato degli amici. Mi ci sono affezionata, ho imparato anche l’italiano. Dopo due mesi ho mandato uno dei miei fratelli in Arabia Saudita, poi ho saldato il debito del biglietto di viaggio e ho mandato i soldi per costruire un impianto per l’acqua a casa mia in Somalia, perché prima la dovevano andare a raccogliere e bisognava pagarla. E infine ho portato qui anche mia sorella; avevo deciso di andare avanti, di non tornare più. Anche perché se fossi andata in Somalia mi avrebbero arrestata perché non avevo avuto il nulla osta per partire.

In Somalia ero insegnante di scuola elementare e materna; a 16 anni mi ero sposata; i miei genitori non erano d’accordo perché ero ancora in collegio dove dovevo stare due anni, invece sono rimasta incinta, ma l’ho tenuto nascosto fino alla fine. Se l’avessero saputo non mi avrebbero lasciato proseguire gli studi perché lì c’era un regime quasi militare: il primo anno ti alzi alle 5, corri, in divisa, e alle 8 entri in classe, insomma esercizi duri, e anche pericolosi per una donna incinta. Infatti, è andata bene, ma ricordo una stanchezza… Per fortuna al mio settimo mese di gravidanza il collegio chiudeva per le vacanze estive. Così in quei tre mesi ho partorito.
Insomma, io mi sono rifiutata di lasciare la bambina per andare in collegio e mia madre si è arrabbiata, alla fine però mi avevano concesso di andarci la mattina alle 8 e tornare verso le 14, però era lontanissimo, ci voleva un’ora di macchina e io non ce l’avevo… Comunque in qualche modo ce l’abbiamo fatta; la mattina lasciavo la bambina a mia cognata che iniziava a lavorare all’ora in cui io rientravo.
Alla fine il padre di mia figlia è andato in Arabia Saudita; la bambina aveva 7-8 mesi. La sua partenza per me equivaleva a un divorzio. E’ tornato dopo un anno e mezzo; per 6-7 mesi non avevo avuto sue notizie. Dopo sei mesi abbiamo progettato, con una sua sorella, di venire in Italia. Gli amici che avevo qui mi hanno mandato i soldi per il viaggio e il visto. La mia amica, somala, viveva a Napoli, studiava e lavorava. Così sono venuta, avevo 200 dollari, che mia madre mi aveva dato; mio padre non era d’accordo: “Che fa una donna in Italia?”. Perché da noi una donna non può viaggiare senza marito, senza fratello, senza un maschio. Pensava che sarei diventata una prostituta.

Mia figlia era rimasta in Somalia. Quando me ne sono andata aveva un anno e otto mesi. Nell’88, il 25 febbraio, è arrivata anche mia sorella. Ho trovato un lavoro a mia sorella; lei è la quarta, io la seconda, siamo in undici, quattro maschi e sette femmine, una squadra di calcio!
Alla fine dell’88 abbiamo trovato casa assieme, io non spendevo nien ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!