Ho incontrato Carla...
storie
Una Città n° 298 / 2023 dicembre 2023 - gennaio 2024
Intervista a Ciro Naturale
Realizzata da Luciano Coluccia
HO INCONTRATO CARLA...
Venir su in quartieri di periferia dove è normale maneggiare armi, dove spesso i genitori dei ragazzi escono ed entrano dal carcere e dove è facile finire fuori dalla scuola dell’obbligo; l’incontro decisivo per cambiare vita con i maestri di strada napoletani, la scoperta dei libri, dello studio, della possibilità di aiutare i ragazzi di un’altra strada; Poi la famiglia, i figli, la laurea e il ricordo struggente di quell’incontro decisivo con Carla. Intervista a Ciro Naturale.
Ciro Naturale, “allievo” della maestra Carla Melazzini, ha lavorato per tanti anni come educatore nelle attività scolastiche e territoriali che fanno capo ai Maestri di strada napoletani; dal 2008 vive a Marsciano con la moglie Melissa e i quattro figli; continua a fare l’educatore e sta prendendo la terza laurea.
Puoi raccontarci del tuo primo incontro con Carla?
Ho incontrato Carla al quinto anno delle superiori, a 18 anni; frequentavo un istituto superiore a Gianturco, nella periferia est di Napoli. Fu in seguito a un litigio con un assistente di tecnologia, in concomitanza con l’occupazione scolastica, che in quel periodo, ma ancora adesso, ricade sempre nei giorni prima di Natale. In quella circostanza io alzai le mani e l’assistente a sua volta reagì. Stavo per essere sospeso e cacciato da tutte le scuole d’Italia. L’incontro con lei è avvenuto forse nel momento più brutto della mia vita: avevo osato mettere le mani addosso a un assistente, mi sentivo un mostro, tutti mi scansavano. Mi avevano messo in un angolo in attesa di essere sospeso. Ebbene, lei non se n’è fregata di nessuno e si è messa a parlare con me. Nel giro di trenta secondi mi aveva conquistato. Ricordo che mi fece una domanda molto precisa: “Ma tu sai perché l’hai fatto?”. Io dissi: “Professoressa, lo so, ma nessuno ci crederà; l’ho fatto per paura, perché quello là mi tirava per il braccio...”. Quando lei percepì questo senso di sincerità, mi fece sfogare e dopo avermi ascoltato per una buona mezz’ora, parlò con i miei professori, con il vicepreside, mi fece ottenere una sospensione con l’obbligo di frequenza.
Dopo di allora mi veniva a cercare in classe, mi tratteneva un po’ con lei a chiacchierare dentro la biblioteca. Lei vedeva che a me piaceva studiare. Al quinto anno, mancava un mese, mi chiese: “Ma tu che materie porti?”. Io dissi: “Porto Italiano e Storia”, e lei: “Io sono professoressa di Lettere, se vuoi ti posso dare una mano”, “Ma lei non ha capito, io non tengo una lira...”. Ecco quella volta mi guardò arrabbiata, quasi offesa: “Io non ho mai fatto lezioni private, questo è il mio numero e il mio indirizzo”. Una persona che ti spiazza, che ti fa andare oltre. Io ci andai con tanto timore, mi aiutò molto.
Fu così che nacque l’idea di una prima intervista su “una città” dove raccontavo questo mio conflitto interiore con la scuola e il quartiere. Lei mi fece una domanda e io liberai quel mondo che era chiuso e compresso dentro di me, che non avevo mai comunicato a nessuno.
A fine 2008 hai lasciato Napoli.
Era un periodo particolare, l’esperienza del Giglio dei ragazzi mi aveva messo in luce rispetto al quartiere e alle organizzazioni più prepotenti, comprese quelle istituzionali, perché purtroppo c’era una commistione: avvenivano riunioni tra persone della politica locale, politicanti di quartiere, boss che organizzavano la festa. Io ero stato abbastanza “capatosta” in quella circostanza e quindi avevo paura, soprattutto perché mi rendevo conto di star diventando sempre più ribelle e anche sempre più disadattato a casa mia.
Quello a cui stiamo assistendo oggi, il fatto che i ragazzi reperiscono e usano armi con facilità, io già lo vivevo venti anni fa; in certi contesti sociali di Napoli, della periferia napoletana, dei quartieri popolari queste cose non sono per nulla nuove.
Comunque sono emigrato a fine 2008. All’epoca tenevo i conti ed erano morti qualcosa come una ventina di ragazzi nei nostri quartieri, Barra, San Giovani e Ponticelli. Correvano sulle motociclette per trovare la cocaina o altri tipi di droga nel quartiere a fianco; si moriva per situazioni legate ai sistemi camorristici, all’economia del sistema criminale locale; si moriva perché si incappava in un agguato anche involontariamente; si moriva perché si veniva accoltellati durante una rissa tra ragazzi. Ripeto, questo accadeva già vent’anni fa. La differenza è che prima c’era un controllo sociale di queste organizzazioni criminali. Per dire, se veniva dato l’ordine di non rubare più le autoradio nelle macchine o di non commettere piccoli reati (per il semplice fatto che in ballo c’erano mercati molto più grossi come quelli della droga, dell’edilizia, delle tangenti ai supermercati), questi venivano rispettati.
Qual è stata la molla? Una serie di cose. Io in realtà facevo di tutto per non andarmene. Mi ero anche candidato al Comune di Napoli con una lista civica fondata da Daniela Lepore e Marco Rossi Doria “Decidiamo insieme”. Direi che alla fine la molla principale è stata il precariato: Melissa e io, subito dopo sposati, vivevamo in un basso di 15 metri quadri dove i libri non ci entravano; un po’ li avevo infilati sotto il letto, nei cartoni di banane; i figli ormai erano due e soffrivano a stare chiusi. La mamma di Melissa ci aiutava calandoci il pasto con il paniere; il salumiere, il macellaio del vicolo mi anticipavano il cibo per sei mesi. Il tutto in attesa che il Comune mi pagasse come educatore, cosa che avveniva sempre con grandi ritardi. Certo, lì avevo tutta una serie di sostegni che qui non ho e che mi permettevano di sopravvivere, però con due figli ho cominciato ad avere paura... anche del mio carattere.
Da tempo mi sentivo disadattato rispetto a tutte queste dinamiche perché la prepotenza non è bella da subire, ma nemmeno da praticare. Neanche Melissa ha avuto una vita facile, dopo una serie di lavoretti, ha aperto un negozio per recuperare il mestiere che faceva dall’infanzia nel negozio della mamma a Napoli, ma infine ha dovuto chiudere perché non si reggevano le spese, le tasse...
Come hai conosciuto tua moglie?
Ci siamo conosciuti al mercato della frutta fuori casa; lei veniva a fare la spesa, io ci lavoravo e stavo lì che la guardavo, c’era anche l’altro mio amico che la guardava. Forse fu l’unico atto di prepotenza che feci: “Quella la guardo io...”. Avevo comunque il vantaggio di avere qualche anno in più e la nomea di essere più sveglio. Avevo 16, 17 anni.
Il primo appuntamento con lei è stato alla fontanella del quartiere, ma il quartiere nostro aveva due fontanelle, per cui quella volta successe che ci mettemmo ad aspettare in due piazze diverse! Ci siamo conosciuti così, ci siamo dati un bacio di nascosto sotto il palazzo, perché la sua famiglia è molto all’antica. Lei è cresciuta con la mamma insieme ai fratelli mentre il padre passava da un carcere all’altro, però loro sono sempre stati estranei. Melissa non ha mai abbracciato lo stile di vita né del padre, né dei contesti. Noi abbiamo sofferto tanto questa cosa: da fidanzati per anni siamo andati tutte le domeniche nel carcere di Rebibbia a trovare il padre di Melissa. Assieme abbiamo cresciuto i quattro fratelli più piccoli di lei, che uscivano sempre con noi perché i suoi erano all’antica... Insomma, anche lei era stufa.
A un certo punto, nel corso di un convegno organizzato con il Cilap, il collegamento italiano di lotta alla povertà, proprio sui Maestri di strada, per diffondere le buone pratiche, le nuove modalità di co-progettazione, ebbi l’opportunità di fare un intervento. Nella prima parte erano intervenuti tutti i rappresentanti delle istituzioni; era il periodo della Iervolino al Comune e di Bassolino alla Regione; quest’ultimo ci stordì con i milioni di euro dei fondi strutturali della comunità europea.
In quel periodo facevo parte anche del collettivo operatori sociali della Federico II, che si appoggiava ai centri sociali nella zona centrale di Napoli; ero molto ribelle, non solo rispetto ai camorristi del quartiere ma anche rispetto ai nostri assessori alle politiche sociali, che poggiavano i servizi per l’adolescenza e l’infanzia su un precariato estremo, sullo sfruttamento della risorsa più preziosa che abbiamo a Napoli, che è quella degli operatori sociali.
Il nostro coordinatore aveva perso il traghetto e, insomma, dopo uno scambio di telefonate, disse: “Il mio intervento lo fa Ciro”; ricordo che ero seduto a fianco di Carla Melazzini. Mi alzai e andai.
Questo è un ricordo bellissimo, che dà la misura di chi era Carla, che non se ne fregava nulla delle istituzioni. Iniziai il mio intervento parlando dei progetti del centro di aggregazione che afferiva ai Maestri di strada; delle attività che facevamo, dei weekend educativi; di come queste pratiche fossero efficaci e anche trasferibili in altri contesti e alla fine arrivai alla nota dolente: “Bene, rispetto a quello che ha detto il nostro governatore, in questa sala siamo duecento educatori, se ce n’è uno che con quei milioni di euro dei fondi strutturali viene pagato regolarmente tutti i mesi, lo sfido ad alzarsi in piedi...”.
Fu come se fosse caduta una bomba. Dopo il mio intervento, passato l’iniziale silenzio imbarazzato, ci fu un applauso. Ma la cosa più bella fu che quando, un po’ tramortito, tornai a sedere vicino a Carla -ancora mi commuovo a pensarci- lei mi disse: “Hai fatto un intervento perfetto”.
Insomma, la situazione era questa e io non ce la facevo più. Pensa che Carla mi aveva dato l’incarico di andare a prendere gli assenti con la Vespa. Siccome, appunto, non avevo soldi, a volte gli stessi ragazzini mi dicevano: “Ma com’è che tu metti sempre un euro di benzina?!?”, e io a inventarmi che il serbatoio è sporco, che sulla base ci rimangono i detriti, che se metto tanta benzina poi dopo finisce nei tubi...
Nel mio quartiere intanto avevano iniziato a presentarsi questi assessori, praticamente della mia età, con cui avevamo fatto le scuole superiori insieme, e raccontavano un sacco di palle. In uno di questi eventi, in cui mi presentai coi ragazzi sui trampoli, in modo anche un po’ contestatorio, li accusai di strumentalizzare delle situazioni per il loro tornaconto politico; uno di questi mi diede dello spostato: “Sei spostato stamattina, che ti sei fatto?”, e da lì mi partì uno schiaffo, la cosa uscì sul giornale di quartiere. I Maestri di strada si dispiacquero. Era un gesto legato anche alla disperazione, alla frustrazione. Insomma il desiderio di andare via cresceva...
In una pausa pranzo mi avvicinò una delle responsabili di un consorzio del perugino: “Ho sentito il tuo intervento, mi è piaciuto molto, avrei una proposta per te...”. Colsi la palla al balzo. Nel giro di una settimana riuscii a comprare una macchina e a farmi anticipare dei soldi, anche grazie a un amico che mi faceva fare delle giornate da muratore; ricordo che mentre sfogavo la mia rabbia con il martello, il piccone, mi attraversavano tanti pensieri, tante persone che in quel momento mi rendevo conto di stare lasciando.
Nel giro di un anno avevo già messo in conto di dovermene andare. Anche Carla non era contenta di questo fatto che, pur facendo un lavoro bello, stimolante, si rimaneva mesi senza essere pagati; con due figli non era più sostenibile. Lei era consapevole che comunque me ne sarei andato con un bagaglio, una formazione che mi avrebbe permesso di affrontare il mondo fuori dal mio quartiere.
Io non smetterò mai di ringraziare lei e i Maestri di strada perché, per merito loro, ho goduto per oltre quindici anni di una formazione continua di alto livello.
Da quando l’avevo incontrata quella prima volta, con Carla non ci siamo più lasciati. Ha seguito tutti i miei anni universitari, mi scriveva il piano di studi, i moduli per avere le borse di studio, mi apriva la sua libreria di casa, sfogliava la guida universitaria e diceva: “Questo ce l’ho, Piaget ce l’ho...” . I libri su cui ho studiato sono i suoi; vedi quei tre libri di Vittorio Sermonti sulla Divina Commedia? Carla non mi ha mai fatto mancare niente, per quindici anni tutti i sabati ci incontravamo a casa sua, parlavamo tanto, mi guidava negli studi...
Io venivo da una situazione di povertà familiare. Mia madre ha lavorato come donna delle pulizie nel tribunale di Napoli per quarant’anni, ha pulito le scrivanie a giudici, cancellieri e poliziotti; era una persona che aveva le sue difficoltà; avevamo gli stessi difetti di fabbrica, le stesse fragilità, lo stesso cuore, ci volevamo un mondo di bene, però lei non riusciva ad aiutare me e io non riuscivo ad aiutare lei.
Insomma, alla fine, nel giro di una settimana, emigrai e venni assunto nella cooperativa dove ancora oggi lavoro come educatore. Io sono sempre stato impegnato nell’ambito dell’infanzia e dell’adolescenza, soprattutto il residenziale: bambini allontanati dalle famiglie; ci ho lavorato per dieci anni; ora lavoro sempre nella stessa struttura che però ha differenziato l’utenza e la tipologia dei progetti, per cui abbiamo anche una comunità madre e bambino e una per adolescenti, dove lavoro attualmente.
I primi anni è stata dura perché mi sono ritrovato da solo, senza i legami, gli affetti, l’ambiente familiare. Considera che io sono praticamente cresciuto per strada dall’età di sei anni fino ai trentaquattro quando sono emigrato. Crescendo per strada diventi un po’ il figlio di tutti, ti affezioni a tutti, diventi parte integrante del posto, uno che conosce ed è conosciuto da tutti per il semplice fatto che sei sempre lì. Ricordo che nell’ultimo progetto fatto a Napoli, Carla era responsabile pedagogica; c’era un’équipe costituita da una psicologa, una sociologa e un filosofo di strada; eravamo quattro giovani, attorno a noi gravitavano nove insegnanti e 18 ragazzi individuati attraverso dei colloqui. Beh, ci rendemmo conto che quei ragazzi erano tutti senza un padre! Chi era morto per overdose, chi stava in galera, chi era stato ammazzato in qualche agguato. Non era stata una scelta, ma effettivamente erano stati tutti scartati dalla scuola media.
Voglio aggiungere una cosa. Con Carla Melazzini nessuno rimaneva a piedi: “Se questo non è il progetto per te, c’è quest’altro...”. Il ventaglio di attività offerto dai Maestri di strada è sempre stato molto largo, molto creativo, molto aperto. Molto di quello che ho letto e continuo a leggere nei libri di metodologia della ricerca educativa, antropologia, pedagogia familiare e sociale, psicologia generale, sono tutte cose che Carla non solo ci diceva durante gli incontri di formazione, ma che lei metteva in pratica. Lei poi era molto metodica anche nella produzione, nella diffusione e nella conservazione dei materiali, da quelli didattici a quelli progettuali alle rendicontazioni.
Oggi si parla tanto di partecipazione, di pedagogia inclusiva, però alla fine c’è sempre qualcuno che decide per l’altro; c’è sempre l’esperto o l’insegnante che decide per il ragazzo. Invece Carla i progetti li realizzava insieme ai ragazzi e le pratiche ce le faceva sperimentare. Vent’anni fa con i ragazzi si discuteva anche la tabella nutrizionale, se sostituire la pasta e ceci alla mensa, cosa fare del budget a disposizione; se destinare quella quota di soldi per prendere il patentino oppure per prendere un certificato; i ragazzi facevano il loro progetto di vita.
Il libro degli scritti di Carla Melazzini che ha messo insieme Cesare Moreno, Insegnare al principe di Danimarca, non sono mai riuscito a leggerlo perché mi commuovo, perché mi sembra veramente di partecipare alle sue riunioni; in quella cartellina blu ci sono tutti i suoi interventi. Non riesco ancora a metterci mano. Lei era parecchio avanti.
Pensi mai alla possibilità di tornare?
Sono cambiate tante cose. Quando avevo 17 anni e vivevo a Barra esisteva il killer minorenne che diventava quasi un mito perché a 16 anni aveva trovato il coraggio di ammazzare. Il killer minorenne all’epoca era una risorsa preziosa per i sistemi criminali, era fedelissimo. Adesso c’è stato un cambio di rotta; un tempo queste strutture criminali erano molto forti nei cantieri, poi è subentrato il traffico di droga perché le gru a Napoli si sono fermate. Ci sono poi state delle circostanze che hanno permesso alle organizzazioni criminali di reggere l’urto della magistratura: i figli hanno sostituito i loro genitori, sono stati organizzati matrimoni combinati per rimpinguare di uomini le famiglie che erano state decimate dalla giustizia e dagli agguati. Comunque i killer adulti hanno cominciato a scarseggiare, anche perché preferiscono mandare altri, per cui, per esempio, il traffico di droga è gestito da ragazzini esaltati. Questo stato di confusione, con tanti ragazzi che commettono tanti piccoli reati, fa comodo ai grossi perché distrae la polizia, distrae l’opinione pubblica e loro sono liberi di concentrarsi sul traffico della droga ai livelli alti e sulle tangenti, diciamo, più “pulite”. Ecco, oggi avrei paura a tornare perché c’è questa anarchia ed è diventato tutto più cruento.
Io da ragazzino le pistole le ho viste, le ho prese, ma stavi dentro il tuo palazzo, nel tuo prato. Adesso i boss hanno esternalizzato tutto, anche perché così loro rischiano di meno; mentre quei quattro disgraziati, che sono manovalanza pura, tengono occupata la polizia, stai sicuro che nei vicoli vengono movimentati chili di droga. La cosa triste è che io ho visto ragazzini andare a prendere i mattoni per costruire la casa del boss, ragazzi che non hanno mai lavorato in vita loro... per alcuni è come se trovassero una famiglia adottiva.
Che fare? Qui bisognerebbe rinforzare la scuola, rinforzare gli educatori, il teatro, lo sport, le infrastrutture, tutti i servizi per l’infanzia e l’adolescenza. Non ci dovrebbe essere un bambino che non fa sport; non ci dovrebbe essere un ragazzino che non va a scuola; servirebbe una sinergia tra il mondo della cooperazione e quello delle istituzioni.
La legge contro la dispersione scolastica c’è da un po’ di tempo, ma è sempre stato difficile farla rispettare. Se ci sono problemi economici, di sussistenza, di deprivazione, bisogna andare alla radice e sostenere i tessuti sociali comunitari, l’associazionismo.
Io poi mi sono fatto l’idea che quando lavori con ragazzi di 15-16-17 anni non devi essere troppo tenero; quando serve bisogna saper essere severi; il pietismo non ci porta da nessuna parte: i ragazzi sentono pure il bisogno di riparare quando commentano errori. Quando arrivano all’apice della parabola e cominciano a discendere, quello è un momento buono per cominciare un percorso di liberazione, però devono essere messi in condizione di poter usufruire di tutte le opportunità...
Qui nel centro Italia anche i ragazzi più disgraziati hanno l’opportunità di fare teatro, sport o musica e soprattutto hanno l’obbligo di andare a scuola. Qui non esiste il ragazzino che non si sveglia per non andare a scuola! Perché al Sud non è così? Perché le infrastrutture e i servizi sono carenti. Occorre potenziarli, occorre portare cultura, occasioni in questi luoghi che effettivamente diventano zone franche. Nella mia testa c’è sempre lo stesso sogno: portare giochi colorati nei vicoli più abbandonati, nei quartieri più deprivati, dove spacciano la droga. Servono politiche sinergiche che contrastino la povertà... Noi parlavamo di “accoglienza e norma”, un connubio perfetto.
Il ragazzo che tempo fa è sceso con la pistola e ha ammazzato un altro suo coetaneo che aveva davanti un futuro da musicista ormai ha superato il fossato, è difficile riportarlo alla giustizia riparativa; siamo arrivati troppo tardi. Sembra che la società preferisca aspettarli in Tribunale piuttosto che prevenire. Questo lo dicevo già vent’anni fa.
Raccontaci delle attività che fai oggi...
Nei miei laboratori non ci sono iscritti, non ci sono luoghi, non ci sono case prestate dalle istituzioni, non c’è l’associazione fatta da “Io, mammeta e tu”, sono tutte cose fatte con quello che trovi strada facendo, come dicono i Maestri di strada.
Sono arrivato qui dopo trent’anni di impegno nel mio quartiere a buttare sangue, con tanta vitalità, passionalità, con gente di tutti i tipi e senza alcun pregiudizio. Lasciare la mia città è stato un trauma: non avevo più amici, nessuno con cui parlare, eravamo “i napoletani”, ho faticato a sentirmi un po’ integrato... Per fortuna sono un tipo estroverso, creativo, giocoso, sto bene in mezzo agli altri.
Da Napoli mi sono portato via due computer e 7-8 cartoni di banane pieni di libri, gli stessi cartoni che avevo quando subivo i blitz della polizia con i cani. Loro venivano dai miei vicini di casa, io vivevo in un basso e non c’avevo nulla a che vedere con quelli, la mia famiglia era onesta, però loro irrompevano pure nella mia casa, guardavano sotto al letto: “Ma questi sono libri veramente!”, e poi: “Ma tu che ci fai qui? Perché non te ne vai?”, “Perché non tengo una lira...”. Comunque quando sono venuto qui, oltre ai libri, mi sono portato pure i trampoli perché a Napoli all’epoca stavo facendo un progetto di trampoleria per bambini. Per tre anni sono rimasti nel giardino, buttati a terra, ogni tanto li usavo per delimitare il terreno, per farci un’aiuola, un quadrato di orto...
L’integrazione è stata difficile?
Per tre anni non sono riuscito a fare niente fuori dal lavoro. Poi abbiamo iscritto i nostri figli all’asilo e abbiamo cominciato a conoscere le prime persone, ad andare alle prime feste: chi porta il dolce, chi porta il salato, come si sa, attorno al cibo avvengono tante cose, le persone si conoscono...
Ricordo ancora come a ogni incontro con i genitori dei ragazzi che frequentavano Chance, Carla si premurasse che ci fosse sempre un buffet, con le mamme sociali pronte a offrire un tè caldo...
Non è stato facile. Comunque anche lì è successo: “Chi ha portato questa pastiera?”, “La mamma e il papà di Assia”, e così con una pastiera abbiamo conosciuto tutti! Poi, visto che Melissa faceva la badante, sono andato io ai colloqui con le maestre e quando mi è stato detto che la bambina era una ragazzina sensibile, io l’ho fermata e ho detto: “Una sola domanda: con gli altri ragazzi come si relaziona?”, lei mi ha rassicurato e poi mi ha chiesto: “E lei che cosa fa?”, “Io faccio l’educatore, sono laureato...”, “Guardi, noi abbiamo la banca del tempo per i genitori, potrebbe partecipare con un’attività...”. Al che le ho spiegato che avevo questo progetto per insegnare ai ragazzini a camminare sui trampoli. Un’attività che ha a che fare con lo sviluppo emotivo, perché imparano a superare le paure, a gestire la precarietà, e però ho aggiunto che l’avrei fatto solo se venivano coinvolti anche i genitori, perché loro dovevano aiutare i loro figli a camminare sui trampoli... In questo modo il genitore si sarebbe ritrovato a vivere le stesse emozioni di quando aveva insegnato ai figli a camminare, la paura che cadessero, ecc.
Voleva dire coinvolgere tre classi, nove insegnanti e 54 genitori. La professoressa ha accettato la sfida. Allenavo questi ragazzini nella palestra della scuola, ho chiesto aiuto agli animatori dell’oratorio, le mamme hanno cucito i vestiti; ai papà ho chiesto viti, colla e legno usato. In pratica ho mobilitato un quartiere intero. L’ultimo anno abbiamo fatto una sfilata di 54 trampolieri, sono uscite le foto sul giornale. Gli insegnanti, le mamme e i papà erano entusiasti di aver sfilato per il quartiere tenendo per mano i loro figli.
Da allora non ho più smesso, però non sono mai riuscito a trovare un gruppo di giovani educatori che potessero ereditare, far propria, questa idea. Mi sarebbe piaciuto creare un’associazione... Anche perché è un’attività molto impegnativa. Ho resistito per cinque anni perché la cosa aveva attivato in me tante energie, mi era servita a superare il trauma dell’emigrazione, a integrarmi, a sentirmi utile, a non sentirmi straniero insomma.
Finito con i trampoli ho iniziato a pensare a progetti sul gioco. Io con i bambini ci sono sempre stato, da quando Cesare Moreno 25 anni fa mi mandò nell’Orfanotrofio nel rione “Bronx”. All’inizio davo latte e biscotti, merendine, facevo l’accoglienza. Erano una settantina di bambini, li andavo a prendere per portarli a scuola, era l’epoca dei blitz della polizia. Alcuni di loro oggi sono dei boss. Moreno lavorava su diversi progetti per la genitorialità: faceva entrare le mamme dei quartieri negli asili, per cucinare, per le attività collaterali e a loro diceva: “Venite con i figli che c’abbiamo un incantatore di bambini”. Ero io, che raccontavo le fiabe dei libri che mi regalava Carla, quelle di de Simone, il cunto de li cunti, e poi mi inventavo dei giochi, facevamo la cronistoria della partita di calcio, il gioco delle sette pietre. Il gioco e la fiaba sono due strumenti potentissimi: la fiaba letta ad alta voce, recitata con enfasi... si giocava con niente, con le sedie di casa; con gli elastici nei capelli delle donne creavo le fionde...
A una festa a Todi, invitato da un amico, vidi questa piazza piena di giochi di legno: era un ludobus venuto da Rimini. La cosa mi sembrava valida, ma era troppo costosa. Però mi sarebbe piaciuto realizzarla nel mio quartiere e allora feci delle fotografie e, una volta a casa, cominciai a costruire un gioco per volta con legno riciclato, mobili vecchi...
Un giorno un signore che vedeva come riuscivo a trascinare nel gioco tanti bambini anche senza materiali, semplicemente con la parola, la fantasia, gli indovinelli, i scioglilingua, giocando come se fossi un bambino anch’io, mi coinvolse in un’iniziativa per i detenuti. Alla fine di una riunione, mentre me ne stavo andando, un signore mi corse dietro: “Io sono capocantiere di una ditta edile, che ti serve?”, “Se mi dai un po’ di legno vecchio...”, “Ma guarda che io quelle cose te le posso proprio costruire...”. Appena pronta la prima batteria di giochi, mi sono messo in mezzo alla gente, senza chiedere niente a nessuno, come un’ambulante, anzi un’abusivo, e dopo poco tanti bambini e tanti genitori si sono messi a giocare. È stato un successo. Questo laboratorio di giochi è diventata la mia passione e in qualche modo mi aiuta a sanare questo rovello dell’emigrazione, perché per tante cose io a Napoli ci tornerei domani. È come se non me ne fosse mai andato.
Continui a studiare...
Dopo la laurea in Filosofia, lo scorso anno ho fatto Scienze dell’educazione e quest’anno Consulenza pedagogica, che sarebbe la sua naturale evoluzione; i voti sono tutti buoni; a Perugia mi hanno dato anche la lode. Potrei pure pensare di fare il dottorato di ricerca, anche se ho cinquant’anni... Al lavoro i turni sono da sei, sette e otto ore, il turno di notte è di dodici. Poi ho quattro figli, tutti in età scolare, due piccoli e due adolescenti, poi ci sono i soliti guai, la casa, i soldi...
Ma come hai fatto?
Il primo periodo è stato traumatico perché mi sono iscritto all’università che non sapevo nulla; ero rimasto al vecchio ordinamento che tu vai là a chiedere ai professori il programma e fai il piano di studi. Adesso è tutto telematico e devi fare da solo; all’epoca faceva tutto Carla, io non sapevo manco che avevo una borsa di studio. Comunque mi ci sono messo: inizia il corso e dopo un mese arriva la pandemia. Figurati, un casino! Quattro figli e un solo computer! All’esame di pedagogia familiare e sociale, la professoressa mi chiese: “Ma mi dica una cosa, dai testi che ha letto, chi sono queste famiglie vulnerabili?”, e io: “Professoressa, la mia per esempio! Siamo in sei chiusi in casa con un solo computer!”. Quella rideva! Devo dire che ho trovato tanta umanità negli insegnanti, tanta disponibilità. Nelle chat all’inizio ero molto timido, mi imbarazzava dire che sono un po’ avanti con gli anni, a fare domande banali... invece subito mi rispondevano, mi aiutavano: “Ciro, sei nell’aula virtuale sbagliata, clicca di qua, clicca di là...”, degli angeli! Così sono riuscito a fare gli esami, casomai arrivando all’ultimo perché dovevo prima portare i figli a scuola. Tutto grazie a questi ragazzi che neanche conoscevo! Provo davvero una grande gratitudine per loro. Mi sono laureato con mezzi di fortuna, fotocopie, libri presi dalle biblioteche e tanti pdf. Per questo dico che mi sono laureato con WhatsApp.
Quando mi sono spostato, Carla e Cesare sono venuti e come regalo di matrimonio, mi hanno donato questi tre volumi di Vittorio Sermonti sulla Divina commedia. Dentro c’erano dei soldi per me e per Melissa. Erano tra le pagine, ma lei non me l’aveva detto.
Quando mi sono laureato, trovavo difficoltà a scrivere una tesi perché avevo sempre avuto Carla che mi correggeva. Mi aveva corretto tipo tremila pagine di appunti. Quella era la scrittura che mi piaceva. Non le relazioni che si fanno adesso, in cui si fotografa il comportamento di un momento del minore, l’assistente sociale poi la manda a un giudice e tutte le decisioni vengono prese sulla base di quella. Pensa che responsabilità.
La scrittura dei Maestri di Strada era diversa: andava ad analizzare le pratiche, le dinamiche; serviva a noi operatori per rifletterci sopra in maniera più distaccata, nel gruppo più allargato.
Comunque tutte le cose che scrivevo, Carla me le restituiva in forma pulita...
Un giorno ho scritto un post dicendo: proprio ora che devo scrivere la tesi, mi manca tanto Carla che mi aiutava a scrivere bene in Italiano... Beh, mi risponde su Facebook la professoressa di italiano che stava sempre insieme a Carla nell’istituto superiore dell’Itis di Gianturco, quando a 18 anni avevo litigato con quell’assistente. Lei mi scrive: “Sono Luisa, l’amica della tua professoressa Carla, mandala a me la tesi, te li correggo io i capitoli”. Ecco, anche se non c’è più, è come se continuasse ad accompagnarmi, trovo continuamente sue tracce...
(a cura di Luciano Coluccia)
Puoi raccontarci del tuo primo incontro con Carla?
Ho incontrato Carla al quinto anno delle superiori, a 18 anni; frequentavo un istituto superiore a Gianturco, nella periferia est di Napoli. Fu in seguito a un litigio con un assistente di tecnologia, in concomitanza con l’occupazione scolastica, che in quel periodo, ma ancora adesso, ricade sempre nei giorni prima di Natale. In quella circostanza io alzai le mani e l’assistente a sua volta reagì. Stavo per essere sospeso e cacciato da tutte le scuole d’Italia. L’incontro con lei è avvenuto forse nel momento più brutto della mia vita: avevo osato mettere le mani addosso a un assistente, mi sentivo un mostro, tutti mi scansavano. Mi avevano messo in un angolo in attesa di essere sospeso. Ebbene, lei non se n’è fregata di nessuno e si è messa a parlare con me. Nel giro di trenta secondi mi aveva conquistato. Ricordo che mi fece una domanda molto precisa: “Ma tu sai perché l’hai fatto?”. Io dissi: “Professoressa, lo so, ma nessuno ci crederà; l’ho fatto per paura, perché quello là mi tirava per il braccio...”. Quando lei percepì questo senso di sincerità, mi fece sfogare e dopo avermi ascoltato per una buona mezz’ora, parlò con i miei professori, con il vicepreside, mi fece ottenere una sospensione con l’obbligo di frequenza.
Dopo di allora mi veniva a cercare in classe, mi tratteneva un po’ con lei a chiacchierare dentro la biblioteca. Lei vedeva che a me piaceva studiare. Al quinto anno, mancava un mese, mi chiese: “Ma tu che materie porti?”. Io dissi: “Porto Italiano e Storia”, e lei: “Io sono professoressa di Lettere, se vuoi ti posso dare una mano”, “Ma lei non ha capito, io non tengo una lira...”. Ecco quella volta mi guardò arrabbiata, quasi offesa: “Io non ho mai fatto lezioni private, questo è il mio numero e il mio indirizzo”. Una persona che ti spiazza, che ti fa andare oltre. Io ci andai con tanto timore, mi aiutò molto.
Fu così che nacque l’idea di una prima intervista su “una città” dove raccontavo questo mio conflitto interiore con la scuola e il quartiere. Lei mi fece una domanda e io liberai quel mondo che era chiuso e compresso dentro di me, che non avevo mai comunicato a nessuno.
A fine 2008 hai lasciato Napoli.
Era un periodo particolare, l’esperienza del Giglio dei ragazzi mi aveva messo in luce rispetto al quartiere e alle organizzazioni più prepotenti, comprese quelle istituzionali, perché purtroppo c’era una commistione: avvenivano riunioni tra persone della politica locale, politicanti di quartiere, boss che organizzavano la festa. Io ero stato abbastanza “capatosta” in quella circostanza e quindi avevo paura, soprattutto perché mi rendevo conto di star diventando sempre più ribelle e anche sempre più disadattato a casa mia.
Quello a cui stiamo assistendo oggi, il fatto che i ragazzi reperiscono e usano armi con facilità, io già lo vivevo venti anni fa; in certi contesti sociali di Napoli, della periferia napoletana, dei quartieri popolari queste cose non sono per nulla nuove.
Comunque sono emigrato a fine 2008. All’epoca tenevo i conti ed erano morti qualcosa come una ventina di ragazzi nei nostri quartieri, Barra, San Giovani e Ponticelli. Correvano sulle motociclette per trovare la cocaina o altri tipi di droga nel quartiere a fianco; si moriva per situazioni legate ai sistemi camorristici, all’economia del sistema criminale locale; si moriva perché si incappava in un agguato anche involontariamente; si moriva perché si veniva accoltellati durante una rissa tra ragazzi. Ripeto, questo accadeva già vent’anni fa. La differenza è che prima c’era un controllo sociale di queste organizzazioni criminali. Per dire, se veniva dato l’ordine di non rubare più le autoradio nelle macchine o di non commettere piccoli reati (per il semplice fatto che in ballo c’erano mercati molto più grossi come quelli della droga, dell’edilizia, delle tangenti ai supermercati), questi venivano rispettati.
Qual è stata la molla? Una serie di cose. Io in realtà facevo di tutto per non andarmene. Mi ero anche candidato al Comune di Napoli con una lista civica fondata da Daniela Lepore e Marco Rossi Doria “Decidiamo insieme”. Direi che alla fine la molla principale è stata il precariato: Melissa e io, subito dopo sposati, vivevamo in un basso di 15 metri quadri dove i libri non ci entravano; un po’ li avevo infilati sotto il letto, nei cartoni di banane; i figli ormai erano due e soffrivano a stare chiusi. La mamma di Melissa ci aiutava calandoci il pasto con il paniere; il salumiere, il macellaio del vicolo mi anticipavano il cibo per sei mesi. Il tutto in attesa che il Comune mi pagasse come educatore, cosa che avveniva sempre con grandi ritardi. Certo, lì avevo tutta una serie di sostegni che qui non ho e che mi permettevano di sopravvivere, però con due figli ho cominciato ad avere paura... anche del mio carattere.
Da tempo mi sentivo disadattato rispetto a tutte queste dinamiche perché la prepotenza non è bella da subire, ma nemmeno da praticare. Neanche Melissa ha avuto una vita facile, dopo una serie di lavoretti, ha aperto un negozio per recuperare il mestiere che faceva dall’infanzia nel negozio della mamma a Napoli, ma infine ha dovuto chiudere perché non si reggevano le spese, le tasse...
Come hai conosciuto tua moglie?
Ci siamo conosciuti al mercato della frutta fuori casa; lei veniva a fare la spesa, io ci lavoravo e stavo lì che la guardavo, c’era anche l’altro mio amico che la guardava. Forse fu l’unico atto di prepotenza che feci: “Quella la guardo io...”. Avevo comunque il vantaggio di avere qualche anno in più e la nomea di essere più sveglio. Avevo 16, 17 anni.
Il primo appuntamento con lei è stato alla fontanella del quartiere, ma il quartiere nostro aveva due fontanelle, per cui quella volta successe che ci mettemmo ad aspettare in due piazze diverse! Ci siamo conosciuti così, ci siamo dati un bacio di nascosto sotto il palazzo, perché la sua famiglia è molto all’antica. Lei è cresciuta con la mamma insieme ai fratelli mentre il padre passava da un carcere all’altro, però loro sono sempre stati estranei. Melissa non ha mai abbracciato lo stile di vita né del padre, né dei contesti. Noi abbiamo sofferto tanto questa cosa: da fidanzati per anni siamo andati tutte le domeniche nel carcere di Rebibbia a trovare il padre di Melissa. Assieme abbiamo cresciuto i quattro fratelli più piccoli di lei, che uscivano sempre con noi perché i suoi erano all’antica... Insomma, anche lei era stufa.
A un certo punto, nel corso di un convegno organizzato con il Cilap, il collegamento italiano di lotta alla povertà, proprio sui Maestri di strada, per diffondere le buone pratiche, le nuove modalità di co-progettazione, ebbi l’opportunità di fare un intervento. Nella prima parte erano intervenuti tutti i rappresentanti delle istituzioni; era il periodo della Iervolino al Comune e di Bassolino alla Regione; quest’ultimo ci stordì con i milioni di euro dei fondi strutturali della comunità europea.
In quel periodo facevo parte anche del collettivo operatori sociali della Federico II, che si appoggiava ai centri sociali nella zona centrale di Napoli; ero molto ribelle, non solo rispetto ai camorristi del quartiere ma anche rispetto ai nostri assessori alle politiche sociali, che poggiavano i servizi per l’adolescenza e l’infanzia su un precariato estremo, sullo sfruttamento della risorsa più preziosa che abbiamo a Napoli, che è quella degli operatori sociali.
Il nostro coordinatore aveva perso il traghetto e, insomma, dopo uno scambio di telefonate, disse: “Il mio intervento lo fa Ciro”; ricordo che ero seduto a fianco di Carla Melazzini. Mi alzai e andai.
Questo è un ricordo bellissimo, che dà la misura di chi era Carla, che non se ne fregava nulla delle istituzioni. Iniziai il mio intervento parlando dei progetti del centro di aggregazione che afferiva ai Maestri di strada; delle attività che facevamo, dei weekend educativi; di come queste pratiche fossero efficaci e anche trasferibili in altri contesti e alla fine arrivai alla nota dolente: “Bene, rispetto a quello che ha detto il nostro governatore, in questa sala siamo duecento educatori, se ce n’è uno che con quei milioni di euro dei fondi strutturali viene pagato regolarmente tutti i mesi, lo sfido ad alzarsi in piedi...”.
Fu come se fosse caduta una bomba. Dopo il mio intervento, passato l’iniziale silenzio imbarazzato, ci fu un applauso. Ma la cosa più bella fu che quando, un po’ tramortito, tornai a sedere vicino a Carla -ancora mi commuovo a pensarci- lei mi disse: “Hai fatto un intervento perfetto”.
Insomma, la situazione era questa e io non ce la facevo più. Pensa che Carla mi aveva dato l’incarico di andare a prendere gli assenti con la Vespa. Siccome, appunto, non avevo soldi, a volte gli stessi ragazzini mi dicevano: “Ma com’è che tu metti sempre un euro di benzina?!?”, e io a inventarmi che il serbatoio è sporco, che sulla base ci rimangono i detriti, che se metto tanta benzina poi dopo finisce nei tubi...
Nel mio quartiere intanto avevano iniziato a presentarsi questi assessori, praticamente della mia età, con cui avevamo fatto le scuole superiori insieme, e raccontavano un sacco di palle. In uno di questi eventi, in cui mi presentai coi ragazzi sui trampoli, in modo anche un po’ contestatorio, li accusai di strumentalizzare delle situazioni per il loro tornaconto politico; uno di questi mi diede dello spostato: “Sei spostato stamattina, che ti sei fatto?”, e da lì mi partì uno schiaffo, la cosa uscì sul giornale di quartiere. I Maestri di strada si dispiacquero. Era un gesto legato anche alla disperazione, alla frustrazione. Insomma il desiderio di andare via cresceva...
In una pausa pranzo mi avvicinò una delle responsabili di un consorzio del perugino: “Ho sentito il tuo intervento, mi è piaciuto molto, avrei una proposta per te...”. Colsi la palla al balzo. Nel giro di una settimana riuscii a comprare una macchina e a farmi anticipare dei soldi, anche grazie a un amico che mi faceva fare delle giornate da muratore; ricordo che mentre sfogavo la mia rabbia con il martello, il piccone, mi attraversavano tanti pensieri, tante persone che in quel momento mi rendevo conto di stare lasciando.
Nel giro di un anno avevo già messo in conto di dovermene andare. Anche Carla non era contenta di questo fatto che, pur facendo un lavoro bello, stimolante, si rimaneva mesi senza essere pagati; con due figli non era più sostenibile. Lei era consapevole che comunque me ne sarei andato con un bagaglio, una formazione che mi avrebbe permesso di affrontare il mondo fuori dal mio quartiere.
Io non smetterò mai di ringraziare lei e i Maestri di strada perché, per merito loro, ho goduto per oltre quindici anni di una formazione continua di alto livello.
Da quando l’avevo incontrata quella prima volta, con Carla non ci siamo più lasciati. Ha seguito tutti i miei anni universitari, mi scriveva il piano di studi, i moduli per avere le borse di studio, mi apriva la sua libreria di casa, sfogliava la guida universitaria e diceva: “Questo ce l’ho, Piaget ce l’ho...” . I libri su cui ho studiato sono i suoi; vedi quei tre libri di Vittorio Sermonti sulla Divina Commedia? Carla non mi ha mai fatto mancare niente, per quindici anni tutti i sabati ci incontravamo a casa sua, parlavamo tanto, mi guidava negli studi...
Io venivo da una situazione di povertà familiare. Mia madre ha lavorato come donna delle pulizie nel tribunale di Napoli per quarant’anni, ha pulito le scrivanie a giudici, cancellieri e poliziotti; era una persona che aveva le sue difficoltà; avevamo gli stessi difetti di fabbrica, le stesse fragilità, lo stesso cuore, ci volevamo un mondo di bene, però lei non riusciva ad aiutare me e io non riuscivo ad aiutare lei.
Insomma, alla fine, nel giro di una settimana, emigrai e venni assunto nella cooperativa dove ancora oggi lavoro come educatore. Io sono sempre stato impegnato nell’ambito dell’infanzia e dell’adolescenza, soprattutto il residenziale: bambini allontanati dalle famiglie; ci ho lavorato per dieci anni; ora lavoro sempre nella stessa struttura che però ha differenziato l’utenza e la tipologia dei progetti, per cui abbiamo anche una comunità madre e bambino e una per adolescenti, dove lavoro attualmente.
I primi anni è stata dura perché mi sono ritrovato da solo, senza i legami, gli affetti, l’ambiente familiare. Considera che io sono praticamente cresciuto per strada dall’età di sei anni fino ai trentaquattro quando sono emigrato. Crescendo per strada diventi un po’ il figlio di tutti, ti affezioni a tutti, diventi parte integrante del posto, uno che conosce ed è conosciuto da tutti per il semplice fatto che sei sempre lì. Ricordo che nell’ultimo progetto fatto a Napoli, Carla era responsabile pedagogica; c’era un’équipe costituita da una psicologa, una sociologa e un filosofo di strada; eravamo quattro giovani, attorno a noi gravitavano nove insegnanti e 18 ragazzi individuati attraverso dei colloqui. Beh, ci rendemmo conto che quei ragazzi erano tutti senza un padre! Chi era morto per overdose, chi stava in galera, chi era stato ammazzato in qualche agguato. Non era stata una scelta, ma effettivamente erano stati tutti scartati dalla scuola media.
Voglio aggiungere una cosa. Con Carla Melazzini nessuno rimaneva a piedi: “Se questo non è il progetto per te, c’è quest’altro...”. Il ventaglio di attività offerto dai Maestri di strada è sempre stato molto largo, molto creativo, molto aperto. Molto di quello che ho letto e continuo a leggere nei libri di metodologia della ricerca educativa, antropologia, pedagogia familiare e sociale, psicologia generale, sono tutte cose che Carla non solo ci diceva durante gli incontri di formazione, ma che lei metteva in pratica. Lei poi era molto metodica anche nella produzione, nella diffusione e nella conservazione dei materiali, da quelli didattici a quelli progettuali alle rendicontazioni.
Oggi si parla tanto di partecipazione, di pedagogia inclusiva, però alla fine c’è sempre qualcuno che decide per l’altro; c’è sempre l’esperto o l’insegnante che decide per il ragazzo. Invece Carla i progetti li realizzava insieme ai ragazzi e le pratiche ce le faceva sperimentare. Vent’anni fa con i ragazzi si discuteva anche la tabella nutrizionale, se sostituire la pasta e ceci alla mensa, cosa fare del budget a disposizione; se destinare quella quota di soldi per prendere il patentino oppure per prendere un certificato; i ragazzi facevano il loro progetto di vita.
Il libro degli scritti di Carla Melazzini che ha messo insieme Cesare Moreno, Insegnare al principe di Danimarca, non sono mai riuscito a leggerlo perché mi commuovo, perché mi sembra veramente di partecipare alle sue riunioni; in quella cartellina blu ci sono tutti i suoi interventi. Non riesco ancora a metterci mano. Lei era parecchio avanti.
Pensi mai alla possibilità di tornare?
Sono cambiate tante cose. Quando avevo 17 anni e vivevo a Barra esisteva il killer minorenne che diventava quasi un mito perché a 16 anni aveva trovato il coraggio di ammazzare. Il killer minorenne all’epoca era una risorsa preziosa per i sistemi criminali, era fedelissimo. Adesso c’è stato un cambio di rotta; un tempo queste strutture criminali erano molto forti nei cantieri, poi è subentrato il traffico di droga perché le gru a Napoli si sono fermate. Ci sono poi state delle circostanze che hanno permesso alle organizzazioni criminali di reggere l’urto della magistratura: i figli hanno sostituito i loro genitori, sono stati organizzati matrimoni combinati per rimpinguare di uomini le famiglie che erano state decimate dalla giustizia e dagli agguati. Comunque i killer adulti hanno cominciato a scarseggiare, anche perché preferiscono mandare altri, per cui, per esempio, il traffico di droga è gestito da ragazzini esaltati. Questo stato di confusione, con tanti ragazzi che commettono tanti piccoli reati, fa comodo ai grossi perché distrae la polizia, distrae l’opinione pubblica e loro sono liberi di concentrarsi sul traffico della droga ai livelli alti e sulle tangenti, diciamo, più “pulite”. Ecco, oggi avrei paura a tornare perché c’è questa anarchia ed è diventato tutto più cruento.
Io da ragazzino le pistole le ho viste, le ho prese, ma stavi dentro il tuo palazzo, nel tuo prato. Adesso i boss hanno esternalizzato tutto, anche perché così loro rischiano di meno; mentre quei quattro disgraziati, che sono manovalanza pura, tengono occupata la polizia, stai sicuro che nei vicoli vengono movimentati chili di droga. La cosa triste è che io ho visto ragazzini andare a prendere i mattoni per costruire la casa del boss, ragazzi che non hanno mai lavorato in vita loro... per alcuni è come se trovassero una famiglia adottiva.
Che fare? Qui bisognerebbe rinforzare la scuola, rinforzare gli educatori, il teatro, lo sport, le infrastrutture, tutti i servizi per l’infanzia e l’adolescenza. Non ci dovrebbe essere un bambino che non fa sport; non ci dovrebbe essere un ragazzino che non va a scuola; servirebbe una sinergia tra il mondo della cooperazione e quello delle istituzioni.
La legge contro la dispersione scolastica c’è da un po’ di tempo, ma è sempre stato difficile farla rispettare. Se ci sono problemi economici, di sussistenza, di deprivazione, bisogna andare alla radice e sostenere i tessuti sociali comunitari, l’associazionismo.
Io poi mi sono fatto l’idea che quando lavori con ragazzi di 15-16-17 anni non devi essere troppo tenero; quando serve bisogna saper essere severi; il pietismo non ci porta da nessuna parte: i ragazzi sentono pure il bisogno di riparare quando commentano errori. Quando arrivano all’apice della parabola e cominciano a discendere, quello è un momento buono per cominciare un percorso di liberazione, però devono essere messi in condizione di poter usufruire di tutte le opportunità...
Qui nel centro Italia anche i ragazzi più disgraziati hanno l’opportunità di fare teatro, sport o musica e soprattutto hanno l’obbligo di andare a scuola. Qui non esiste il ragazzino che non si sveglia per non andare a scuola! Perché al Sud non è così? Perché le infrastrutture e i servizi sono carenti. Occorre potenziarli, occorre portare cultura, occasioni in questi luoghi che effettivamente diventano zone franche. Nella mia testa c’è sempre lo stesso sogno: portare giochi colorati nei vicoli più abbandonati, nei quartieri più deprivati, dove spacciano la droga. Servono politiche sinergiche che contrastino la povertà... Noi parlavamo di “accoglienza e norma”, un connubio perfetto.
Il ragazzo che tempo fa è sceso con la pistola e ha ammazzato un altro suo coetaneo che aveva davanti un futuro da musicista ormai ha superato il fossato, è difficile riportarlo alla giustizia riparativa; siamo arrivati troppo tardi. Sembra che la società preferisca aspettarli in Tribunale piuttosto che prevenire. Questo lo dicevo già vent’anni fa.
Raccontaci delle attività che fai oggi...
Nei miei laboratori non ci sono iscritti, non ci sono luoghi, non ci sono case prestate dalle istituzioni, non c’è l’associazione fatta da “Io, mammeta e tu”, sono tutte cose fatte con quello che trovi strada facendo, come dicono i Maestri di strada.
Sono arrivato qui dopo trent’anni di impegno nel mio quartiere a buttare sangue, con tanta vitalità, passionalità, con gente di tutti i tipi e senza alcun pregiudizio. Lasciare la mia città è stato un trauma: non avevo più amici, nessuno con cui parlare, eravamo “i napoletani”, ho faticato a sentirmi un po’ integrato... Per fortuna sono un tipo estroverso, creativo, giocoso, sto bene in mezzo agli altri.
Da Napoli mi sono portato via due computer e 7-8 cartoni di banane pieni di libri, gli stessi cartoni che avevo quando subivo i blitz della polizia con i cani. Loro venivano dai miei vicini di casa, io vivevo in un basso e non c’avevo nulla a che vedere con quelli, la mia famiglia era onesta, però loro irrompevano pure nella mia casa, guardavano sotto al letto: “Ma questi sono libri veramente!”, e poi: “Ma tu che ci fai qui? Perché non te ne vai?”, “Perché non tengo una lira...”. Comunque quando sono venuto qui, oltre ai libri, mi sono portato pure i trampoli perché a Napoli all’epoca stavo facendo un progetto di trampoleria per bambini. Per tre anni sono rimasti nel giardino, buttati a terra, ogni tanto li usavo per delimitare il terreno, per farci un’aiuola, un quadrato di orto...
L’integrazione è stata difficile?
Per tre anni non sono riuscito a fare niente fuori dal lavoro. Poi abbiamo iscritto i nostri figli all’asilo e abbiamo cominciato a conoscere le prime persone, ad andare alle prime feste: chi porta il dolce, chi porta il salato, come si sa, attorno al cibo avvengono tante cose, le persone si conoscono...
Ricordo ancora come a ogni incontro con i genitori dei ragazzi che frequentavano Chance, Carla si premurasse che ci fosse sempre un buffet, con le mamme sociali pronte a offrire un tè caldo...
Non è stato facile. Comunque anche lì è successo: “Chi ha portato questa pastiera?”, “La mamma e il papà di Assia”, e così con una pastiera abbiamo conosciuto tutti! Poi, visto che Melissa faceva la badante, sono andato io ai colloqui con le maestre e quando mi è stato detto che la bambina era una ragazzina sensibile, io l’ho fermata e ho detto: “Una sola domanda: con gli altri ragazzi come si relaziona?”, lei mi ha rassicurato e poi mi ha chiesto: “E lei che cosa fa?”, “Io faccio l’educatore, sono laureato...”, “Guardi, noi abbiamo la banca del tempo per i genitori, potrebbe partecipare con un’attività...”. Al che le ho spiegato che avevo questo progetto per insegnare ai ragazzini a camminare sui trampoli. Un’attività che ha a che fare con lo sviluppo emotivo, perché imparano a superare le paure, a gestire la precarietà, e però ho aggiunto che l’avrei fatto solo se venivano coinvolti anche i genitori, perché loro dovevano aiutare i loro figli a camminare sui trampoli... In questo modo il genitore si sarebbe ritrovato a vivere le stesse emozioni di quando aveva insegnato ai figli a camminare, la paura che cadessero, ecc.
Voleva dire coinvolgere tre classi, nove insegnanti e 54 genitori. La professoressa ha accettato la sfida. Allenavo questi ragazzini nella palestra della scuola, ho chiesto aiuto agli animatori dell’oratorio, le mamme hanno cucito i vestiti; ai papà ho chiesto viti, colla e legno usato. In pratica ho mobilitato un quartiere intero. L’ultimo anno abbiamo fatto una sfilata di 54 trampolieri, sono uscite le foto sul giornale. Gli insegnanti, le mamme e i papà erano entusiasti di aver sfilato per il quartiere tenendo per mano i loro figli.
Da allora non ho più smesso, però non sono mai riuscito a trovare un gruppo di giovani educatori che potessero ereditare, far propria, questa idea. Mi sarebbe piaciuto creare un’associazione... Anche perché è un’attività molto impegnativa. Ho resistito per cinque anni perché la cosa aveva attivato in me tante energie, mi era servita a superare il trauma dell’emigrazione, a integrarmi, a sentirmi utile, a non sentirmi straniero insomma.
Finito con i trampoli ho iniziato a pensare a progetti sul gioco. Io con i bambini ci sono sempre stato, da quando Cesare Moreno 25 anni fa mi mandò nell’Orfanotrofio nel rione “Bronx”. All’inizio davo latte e biscotti, merendine, facevo l’accoglienza. Erano una settantina di bambini, li andavo a prendere per portarli a scuola, era l’epoca dei blitz della polizia. Alcuni di loro oggi sono dei boss. Moreno lavorava su diversi progetti per la genitorialità: faceva entrare le mamme dei quartieri negli asili, per cucinare, per le attività collaterali e a loro diceva: “Venite con i figli che c’abbiamo un incantatore di bambini”. Ero io, che raccontavo le fiabe dei libri che mi regalava Carla, quelle di de Simone, il cunto de li cunti, e poi mi inventavo dei giochi, facevamo la cronistoria della partita di calcio, il gioco delle sette pietre. Il gioco e la fiaba sono due strumenti potentissimi: la fiaba letta ad alta voce, recitata con enfasi... si giocava con niente, con le sedie di casa; con gli elastici nei capelli delle donne creavo le fionde...
A una festa a Todi, invitato da un amico, vidi questa piazza piena di giochi di legno: era un ludobus venuto da Rimini. La cosa mi sembrava valida, ma era troppo costosa. Però mi sarebbe piaciuto realizzarla nel mio quartiere e allora feci delle fotografie e, una volta a casa, cominciai a costruire un gioco per volta con legno riciclato, mobili vecchi...
Un giorno un signore che vedeva come riuscivo a trascinare nel gioco tanti bambini anche senza materiali, semplicemente con la parola, la fantasia, gli indovinelli, i scioglilingua, giocando come se fossi un bambino anch’io, mi coinvolse in un’iniziativa per i detenuti. Alla fine di una riunione, mentre me ne stavo andando, un signore mi corse dietro: “Io sono capocantiere di una ditta edile, che ti serve?”, “Se mi dai un po’ di legno vecchio...”, “Ma guarda che io quelle cose te le posso proprio costruire...”. Appena pronta la prima batteria di giochi, mi sono messo in mezzo alla gente, senza chiedere niente a nessuno, come un’ambulante, anzi un’abusivo, e dopo poco tanti bambini e tanti genitori si sono messi a giocare. È stato un successo. Questo laboratorio di giochi è diventata la mia passione e in qualche modo mi aiuta a sanare questo rovello dell’emigrazione, perché per tante cose io a Napoli ci tornerei domani. È come se non me ne fosse mai andato.
Continui a studiare...
Dopo la laurea in Filosofia, lo scorso anno ho fatto Scienze dell’educazione e quest’anno Consulenza pedagogica, che sarebbe la sua naturale evoluzione; i voti sono tutti buoni; a Perugia mi hanno dato anche la lode. Potrei pure pensare di fare il dottorato di ricerca, anche se ho cinquant’anni... Al lavoro i turni sono da sei, sette e otto ore, il turno di notte è di dodici. Poi ho quattro figli, tutti in età scolare, due piccoli e due adolescenti, poi ci sono i soliti guai, la casa, i soldi...
Ma come hai fatto?
Il primo periodo è stato traumatico perché mi sono iscritto all’università che non sapevo nulla; ero rimasto al vecchio ordinamento che tu vai là a chiedere ai professori il programma e fai il piano di studi. Adesso è tutto telematico e devi fare da solo; all’epoca faceva tutto Carla, io non sapevo manco che avevo una borsa di studio. Comunque mi ci sono messo: inizia il corso e dopo un mese arriva la pandemia. Figurati, un casino! Quattro figli e un solo computer! All’esame di pedagogia familiare e sociale, la professoressa mi chiese: “Ma mi dica una cosa, dai testi che ha letto, chi sono queste famiglie vulnerabili?”, e io: “Professoressa, la mia per esempio! Siamo in sei chiusi in casa con un solo computer!”. Quella rideva! Devo dire che ho trovato tanta umanità negli insegnanti, tanta disponibilità. Nelle chat all’inizio ero molto timido, mi imbarazzava dire che sono un po’ avanti con gli anni, a fare domande banali... invece subito mi rispondevano, mi aiutavano: “Ciro, sei nell’aula virtuale sbagliata, clicca di qua, clicca di là...”, degli angeli! Così sono riuscito a fare gli esami, casomai arrivando all’ultimo perché dovevo prima portare i figli a scuola. Tutto grazie a questi ragazzi che neanche conoscevo! Provo davvero una grande gratitudine per loro. Mi sono laureato con mezzi di fortuna, fotocopie, libri presi dalle biblioteche e tanti pdf. Per questo dico che mi sono laureato con WhatsApp.
Quando mi sono spostato, Carla e Cesare sono venuti e come regalo di matrimonio, mi hanno donato questi tre volumi di Vittorio Sermonti sulla Divina commedia. Dentro c’erano dei soldi per me e per Melissa. Erano tra le pagine, ma lei non me l’aveva detto.
Quando mi sono laureato, trovavo difficoltà a scrivere una tesi perché avevo sempre avuto Carla che mi correggeva. Mi aveva corretto tipo tremila pagine di appunti. Quella era la scrittura che mi piaceva. Non le relazioni che si fanno adesso, in cui si fotografa il comportamento di un momento del minore, l’assistente sociale poi la manda a un giudice e tutte le decisioni vengono prese sulla base di quella. Pensa che responsabilità.
La scrittura dei Maestri di Strada era diversa: andava ad analizzare le pratiche, le dinamiche; serviva a noi operatori per rifletterci sopra in maniera più distaccata, nel gruppo più allargato.
Comunque tutte le cose che scrivevo, Carla me le restituiva in forma pulita...
Un giorno ho scritto un post dicendo: proprio ora che devo scrivere la tesi, mi manca tanto Carla che mi aiutava a scrivere bene in Italiano... Beh, mi risponde su Facebook la professoressa di italiano che stava sempre insieme a Carla nell’istituto superiore dell’Itis di Gianturco, quando a 18 anni avevo litigato con quell’assistente. Lei mi scrive: “Sono Luisa, l’amica della tua professoressa Carla, mandala a me la tesi, te li correggo io i capitoli”. Ecco, anche se non c’è più, è come se continuasse ad accompagnarmi, trovo continuamente sue tracce...
(a cura di Luciano Coluccia)
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