Alessandro Balducci, direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, è presidente dell’Aesop (Association of European Schools of Planning).

Come ha cominciato ad occuparsi di progettazione partecipata?
Ho cominciato ad occuparmene partendo da convinzioni personali profonde, che ho praticato fin dall’inizio. Le mie prime esperienze risalgono a quando ero ancora studente; in quegli anni fui eletto nel Consiglio Comunale del comune dove vivevo, con una lista che si chiamava Movimento Assembleare Certosa, che rappresentava gli interessi di un quartiere ghetto di San Donato Milanese. Questo movimento, legato al mondo cattolico di sinistra e al dissenso cattolico di allora, cercava di introdurre una dimensione di democrazia diretta nel governo locale.
In seguito ho cominciato a studiare, come ricercatore, l’efficacia della pianificazione e dalle indagini è sempre emerso che la dimensione partecipativa è strettamente legata alla possibilità di realizzare progetti più efficaci, perché nella progettazione urbanistica il problema principale è costituito dall’estraneità della razionalità tecnica rispetto ai bisogni, alle esigenze, alle necessità espresse dai cittadini.
Quindi questa mia aspirazione ad applicare la partecipazione all’ambito dell’urbanistica è nata da convinzioni di tipo etico ma poi l’ho approfondita dal punto di vista scientifico. Verso la fine degli anni ’80, primi anni ’90, in Italia quando si parlava di partecipazione tutta la gente storceva il naso perché ci si ricordava delle esperienze più ideologizzate, politicizzate; all’estero invece era già una cosa molto matura e aveva prodotto esperienze significative.
Però poi ho scoperto che c’era una radice importante anche nella tradizione italiana. In particolare, sono rimasto molto stupito dallo scoprire che John Turner, il padre dell’architettura partecipata, ha affermato che il suo ispiratore era stato Giancarlo De Carlo, che nel ’45, durante una conferenza all’Architecture Association, aveva parlato di partecipazione. In seguito, è stato molto importante l’incontro con il sociologo Antonio Tosi, che aveva anch’egli questo tipo di interessi, e con l’Irs (Istituto per la Ricerca Sociale di Milano). Lì abbiamo costituito per alcuni anni un gruppo di lavoro abbastanza importante che ha contribuito a realizzare alcuni piani regolatori con la metodologia della progettazione partecipata.
Ci pareva evidente che bisognava ritornare agli abitanti per poter affrontare efficacemente queste problematiche, anche se non penso che ci debbano essere degli esperti di partecipazione. Non credo che questa metodologia debba diventare una sorta di specializzazione dell’urbanistica, penso invece che sia importante che gli urbanisti facciano i piani regolatori attraverso meccanismi di tipo partecipativo.
I cittadini come accolgono questa opportunità?
Quando siamo partiti tutti ci scoraggiavano dicendo che gli italiani non sono adatti per questo genere di esperienze. Credo invece che il segreto sia riuscire a condurre queste operazioni in maniera seria e strutturata, in modo che il cittadino riesca a capire a che cosa sta partecipando, quali sono le diverse fasi da attraversare, qual è il contributo che può dare e il suo spazio decisionale. Nell’attività di progettazione partecipata bisogna avere un disegno chiaro, un metaprogetto di come si svolge il progetto, non si può certo dire: “Ci incontriamo domani e poi ci incontreremo un’altra volta…”. Ricordo ad esempio che all’inizio avevamo molti dubbi sulle tecniche e gli strumenti, anche un po’ inusuali, che si utilizzano di solito in questi workshop; abbiamo pensato e discusso molto tra di noi sulla loro efficacia in Italia. Poi, però, progressivamente abbiamo acquisito molta confidenza con questi strumenti e alla fine ci sono stati utilissimi. A Casale, un quartiere di Vicenza, ad esempio, al primo incontro del workshop di progettazione, chiedemmo ai presenti di disegnare una mappa del quartiere (è una di queste tecniche) e tutti, dai contadini al veterinario, al medico, all’impiegato, si misero tranquillamente a farlo.
E le pubbliche amministrazioni come reagiscono?
Le amministrazioni all’inizio facevano determinate richieste, ci dicevano sempre che queste fasi di progettazione dovevano durare poco, costare poco e non invadere questo e quel campo. Per fare un esempio, a San Donato, nel 1995, ci “strozzarono” chiedendoci di realizzare tutto il processo part ...[continua]

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