Denis Kajic è nato a Mostar nel 1974.

Avevo 18 anni quando è scoppiata la guerra. La mia famiglia abita nella parte ovest di Mostar, quella croata, ma mio padre è musulmano e mia madre ortodossa, perciò abbiamo subito avuto problemi. Mio padre è stato anche imprigionato e messo in un campo di concentramento.
A 21 anni sono riuscito a lasciare Mostar e a venire in Italia come profugo, in Sardegna. Sono arrivato nell’isola perché lì viveva già da tempo un mio cugino; fu lui a mettersi in contatto col prete che mi chiamò e mi permise di lasciare la Bosnia. Sono rimasto in Sardegna dal maggio 1994 fino al 1997
Il prete che mi ha salvato la vita si chiama Marco Lai. Ha salvato almeno trecento bosniaci, inviando o facendo inviare lettere di accoglienza come quella indirizzata a me; ha lavorato tantissimo, trovando appoggi, famiglie disposte ad accogliere profughi e a garantire per loro. Raccoglieva ogni mese 25 milioni di lire per consentirci di rimanere. Ne inventava di tutti i colori per mettere insieme questa cifra, dalle tombole alle raccolte dirette, alle cene di solidarietà. Si è impegnato senza risparmio in tutti quegli anni e alla fine era diventato quasi nevrotico, era esaurito. So che ora è stato trasferito a Cagliari, in un quartiere difficile della città.
In Sardegna lavoravo al Forte Village di Santa Margherita di Pula, alla lavanderia. Al mattino raccoglievamo tutta la biancheria da lavare girando per i villini con quelle macchinette elettriche che si usano anche nei campi da golf, poi la lavavamo nelle macchine, la stendevamo e la riportavamo nei villini. Dormivamo tutti assieme in camerate ed era anche divertente, anche se per me quelli sono stati anni molto difficili, i peggiori della mia vita. Io sapevo che nel mio paese c’era una situazione terribile, con la guerra in corso.
Un giorno lessi di nascosto una lettera che la mia famiglia aveva scritto a mio cugino riguardo alla situazione in Bosnia: a me certe cose preferivano non dirle, ma da quella lettera seppi some vivevano i miei, di tutte le loro difficoltà. In quel periodo ero tristissimo anche perché stavo da quattro anni con una ragazza e partendo questo rapporto era finito. Al lavoro non mi trovavo male, però alla fine non avevo nulla in comune con gli altri ragazzi. Loro parlavano solo di calcio e di automobilismo, cose che a me non interessano affatto.

Con la Chiesa ho un rapporto contraddittorio. Da una parte riconosco che è stato un prete a salvarmi la vita facendomi avere i documenti per scappare. Ammiro quest’uomo per quello che ha fatto, però lui rappresenta la Chiesa e allora non ero d’accordo sul giudizio che dava rispetto al comportamento della Chiesa in Bosnia. Lui pensava che i francescani in Bosnia, e a Mostar in particolare, fossero come il fratellino birichino, da educare, da richiamare, ma non era severo e intransigente. Cercava sempre di giustificare, di capire. Io invece odio la Chiesa. A Mostar, alcuni frati non si sono comportati bene con mia madre e con gli altri di religioni diverse. Negavano da mangiare e aiuti a chi non era cattolico o facevano pacchi più piccoli per i non cattolici. E’ quello che è successo a mia madre, che è di religione ortodossa. Non potrò mai perdonarli. Però in Sardegna e in Italia ho trovato in molti preti delle persone molto positive e che tuttora stimo. Dalle parti di Oristano ho conosciuto un prete che lavorava con i carcerati e i tossici. Per un periodo sono rimasto con lui ed è stata un’esperienza molto istruttiva. Poi ho conosciuto un prete anarchico che adesso è a Matera, don Claudio. Un giorno sono andato con lui a Roma e lui si è messo a litigare e ha insultato della gente perché aveva trattato male un extracomunitario. Gli ha urlato che erano dei razzisti. Era molto sanguigno.

Infine sono rientrato a Mostar, perché la mia idea è sempre stata quella di tornare nel mio paese. Ho trovato anche un buon lavoro, in una falegnameria industriale di proprietà di un italiano. Facevo l’interprete, l’accompagnatore degli italiani quando venivano, traducevo i fax. Ma non mi piaceva. Guadagnavo bene, 800.000 lire al mese, e mi pagavano anche i contributi. Avevo l’assicurazione, una cosa che qui non ha nessuno. Ma non ero felice. Passavo tutte quelle ore in un posto che non m’interessava affatto, facendo cose che a me non servivano. Poteva sembrare una follia lasciare un posto di lavoro così, ma fortunatamente i miei genitori mi hanno capito e appoggiato quando ...[continua]

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