Giuseppe Ferraro insegna presso il dipartimento di Filosofia dell’Università Federico II di Napoli; ha pubblicato La filosofia spiegata ai bambini, Filema, Napoli 2000 e Filosofia in carcere. Incontri con i minori di Nisida, Filema, Napoli 2001.

A proposito del tuo lavoro tu parli di filosofia “fuori le mura”, cosa intendi?
Io credo a una funzione sociale della filosofia. La filosofia è sempre stata scomoda ed è sempre stata politica, perché si occupa della verità; non è quindi un sapere nel senso istituzionale, ma un desiderio e un bisogno di tutti. Se ci pensiamo non c’è parola più abusata: filosofia dello sport, filosofia dell’azienda. Però poi questo bisogno viene continuamente frustrato e quando ti cimenti nel sapere trovi delle cose del tutto astruse, a partire dalla terminologia, dalle barriere linguistiche che vietano dei passaggi discorsivi che sarebbero invece piuttosto accessibili. Noi viviamo nell’epoca della cosiddetta globalizzazione dove ci ripetono in continuazione che non ci sono confini. In realtà però si stanno moltiplicando i confini interni agli Stati e alle città: i confini si stanno disponendo nei luoghi e i luoghi di confine oggi sono tanti: il carcere, la scuola, insomma tutti quei luoghi di istituzione che fanno riferimento a una territorializzazione, che poi immediatamente si traduce in una precisa gestione e legislazione del tempo. Questo lo si percepisce benissimo entrando in un carcere. Ma si può capire che esiste una legislazione del tempo che ti sottrae il tuo tempo anche riflettendo sulla propria giornata. Certo è più evidente in tutti i luoghi che hanno un’ora d’entrata, un’ora d’uscita e dei tempi di frequentazione scanditi, insomma un’amministrazione esplicita. Per me allora si è trattato di portare la filosofia in questi luoghi estremi. Se infatti la filosofia si occupa di questioni estreme, è nei luoghi estremi che bisogna portarla per vedere che cos’ha da dire; e se non ha da dire niente buttiamola. Adesso so con chiarezza che stavo facendo un processo alla filosofia, a un sapere il cui bisogno è evidente e la cui negazione è altrettanto evidente. Portare la filosofia fuori le mura significava scoprire i confini e quindi rivedere i luoghi della filosofia. Una delle prossime tappe, ad esempio, saranno i vecchietti dell’ospedale: voglio vedere come si muore. Non mi interessa fare un’inchiesta. Il mio scopo è vedere che ne è del nostro sapere, misurarmi con la sua effettiva utilità. Lo stesso è successo coi bambini: io non faccio philosophy for children, trovo che siano delle stupidaggini americane che fanno solo male. Per me fare filosofia coi bambini è utile per la filosofia, non per i bambini. Fare filosofia per i bambini significa fare una filosofia a misura dei bambini, cioè confezionarla come la Benetton. Invece fare filosofia con i bambini significa capire che ne è della filosofia quando la fai con i bambini, cioè che modificazioni di sapere puoi apportare, che cosa ti fanno capire in più i bambini, non portare a loro misura quello che sai tu. Io ho fatto tre esperienze importanti, una coi bambini, una coi ragazzi in carcere e un’altra coi bambini un po’ più grandi, e ho imparato tre cose: dai bambini più piccoli ho capito che la questione dell’origine delle cose, delle cause dell’esistente, è una stupidaggine immane che non appartiene a un sapere come la filosofia, perché questa si occupa di sostanza. Andando da loro mi ero preparato a dire che la filosofia è un sapere che si occupa dell’origine di tutte le cose; gli argomenti dei nostri incontri sarebbero stati gli elementi all’origine della riflessione filosofica: acqua, fuoco, terra e aria. Lavorando insieme invece mi hanno fatto capire che il vero problema della filosofia è come si sostiene e si porta avanti la vita; il problema dell’origine può essere lasciato alla fantasia o alle religioni. Coi ragazzi in carcere invece ho capito la cosa più bella, quella che forse mi appartiene di più, e cioè cosa significa “restituire”. Chi sa deve restituire quello che sa, perché il sapere è un possesso senza proprietà: tu ce l’hai perché l’hai preso o l’hai rubato, l’hai ereditato, te l’hanno donato e tu non lo potrai mai più donare a chi te l’ha donato, o perché non c’è più o perché hai modificato questo sapere; allora non puoi che darlo a chi non ce l’ha, a chi, non avendolo, ha permesso che lo avessi tu.
La restituzione non è il dono né lo scambio, è la reintegrazione. Non sono sottigliezze linguistic ...[continua]

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