Zulma Paggi, che abbiamo ricordato nel n. 125 di Una Città, negli ultimi anni aveva dedicato molto del suo tempo a fare volontariato nel carcere di San Vittore. Pubblichiamo qui l’intervista che ci aveva rilasciato sulla sua esperienza coi detenuti.

Come ho fatto ad avvicinarmi al carcere? Ho fatto un percorso. Ho cominciato facendo un po’ di volontariato in una cooperativa presso la quale lavorava anche un detenuto in semilibertà, non ricordo se un ex Br o Prima Linea. Di giorno lavorava e la sera rientrava in carcere, la solita storia. E quando il lavoro con questa cooperativa è finito, ho deciso di presentare la domanda per fare volontariato in carcere. Mi hanno fatto un colloquio, dopodiché è passato quasi un anno in cui non ho saputo più nulla. Poi, quando ormai non ci pensavo neanche più, è arrivata la convocazione, e con questa la tessera. E credo che in questo lasso di tempo, dal parroco alla polizia, abbiano fatto indagini anche sul mio bisnonno; d’altronde è giusto, e anche comprensibile, che ci sia un filtro. Perché poi la tessera che mi hanno concesso, in base all’art. 378, mi permetteva di vedere chiunque. Ci sono due formule per fare volontariato in carcere, una prevede che tu entri per fare dei corsi, ed è un permesso che va rinnovato ogni anno -ha la cadenza dell’anno scolastico- e ti permette di vedere solo i detenuti che partecipano a tali corsi. Il mio tipo di permesso, invece, mi permetteva di avere colloqui con chiunque ne facesse richiesta, era sufficiente che il detenuto facesse una domanda scritta, la classica “domandina”, che poteva essere nominativa o generica, a seconda se voleva vedere un volontario in particolare o chiedeva genericamente di parlare con qualcuno.

Ecco, ci sono arrivata così, e all’inizio è stato molto pesante. Uscivo e andavo in pasticceria, tornavo a casa e sfogliavo dei giornali femminili, Elle, robe del genere. Dopo subentra l’adattamento, però quella montagna di sofferenza e d’ingiustizia era veramente qualche cosa di spaventoso... gli errori giudiziari, i fascicoli che si perdevano, le visite specialistiche che non arrivavano mai… Quello è stato lo choc.

Io avevo il mio elenco di nomi, quelli da cui bisognava andare subito, quelli che invece andavano chiamati ogni quindici giorni; e le richieste erano dettate soprattutto da necessità pratiche, contingenti, “per cortesia, ho bisogno di una tuta”, oppure “devo rifare gli occhiali perché mi si sono rotti”. Però spesso questi erano anche motivi di “copertura”, che in realtà nascondevano semplicemente il bisogno di parlare. L’aspetto “quotidiano” del lavoro comunque non va sottovalutato, se ti si rompono gli occhiali come fai? Sei allo sbaraglio.
Allora, si cominciava così, che magari gli facevi rifare gli occhiali, ovviamente tutto in regola, seguendo l’iter, chiedendo il permesso, ecc. (poi noi come associazione avevamo un po’ di soldi -pochi in verità- per cui magari gli occhiali nuovi li facevamo avere gratis) dopodiché, su quello si cominciava a costruire un rapporto. Che non è sempre facile, anche perché i trasferimenti sono continui, San Vittore è un posteggio, un andirivieni continuo, per cui magari tu segui una persona, fai un lavoro con lei, stabilisci un rapporto, la chiami regolarmente, dopodiché vieni a sapere che l’hanno trasferito. Invece per costruire qualcosa occorre tempo.
Il pomeriggio, poi, c’erano da fare le telefonate, all’avvocato d’ufficio perché andasse a visitare il detenuto, alla madre che erano anni che non andava a trovare il figlio… Ogni tanto mi pigliavo due giorni e non volevo saperne più niente, dovevo liberarmi la testa.

La regolarità è importantissima: se dici a una persona che al 10 del mese lo chiamerai a colloquio, lo devi fare assolutamente, perché poi il detenuto si mette in attesa. Magari al primo colloquio si presenta malvestito, sporco, con la barba lunga, poi però, alla fine chiede: “Signora quando torna?”. E dalla seconda volta è già più pulito, comincia a prepararsi con cura, a lavarsi, a radersi, a vestirsi bene, quello è il segno che aspetta il colloquio, che si è stabilito il rapporto. I motivi tu non riesci a decifrarli perfettamente, però è successo. E questo gli serve anche per avere un motivo per farsi una doccia o mettersi un indumento pulito anche se non ne ha voglia. Lo vedi da queste cose: se si è fatto la barba, vuol dire che è andata bene.
Una cosa che non si domanda mai direttamente (almeno io non l’ho mai chiesta), ma che è im ...[continua]

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