Giulia Tosoni ha studiato a Torino. Ora vive a Roma dove lavora all’UdU, l’Unione degli Universitari.

Vivere una condizione di benessere a scuola non è stato tanto facile.
Io ho fatto il liceo scientifico a Torino ed è stata un’esperienza abbastanza dura. In particolare, ho sempre notato, da parte di noi studenti, un atteggiamento di distacco nei confronti di quello che si faceva in classe: la scuola veniva vissuta come un momento da attraversare velocemente, nell’arco della giornata, per poi fuggire via ad occuparsi delle cose veramente importanti, che veramente sentivi che ti facevano crescere. E questa era una cosa che mi rattristava, io avrei desiderato molto ricevere delle risposte di qualità a livello culturale... Invece si finiva sempre per vivere una sensazione di estraneità, un divario tra quello che si studiava e ciò che si viveva una volta usciti da scuola, come se si fosse in un’altra dimensione spazio-temporale, che con la tua vita e con la tua crescita non avevano nulla a che fare.

La scuola è anche il luogo dove, forse per la prima volta nella tua vita, si esplicitano tante differenze; innanzitutto quelle generazionali con adulti che non sono i tuoi genitori, il che è una questione sempre complicata (e purtroppo non ho trovato spesso degli insegnati che cogliessero appieno la loro missione educativa. Ho trovato magari persone appassionate della loro materia ma un po’ incapaci di cogliere i mutamenti generazionali che avvenivano negli studenti che via via si avvicendavano). E poi le differenze sociali e culturali: c’era inevitabilmente chi veniva escluso dalla possibilità di un successo formativo, e si poteva stabilire già a inizio dell’anno a chi sarebbe toccato: come sempre ai poveri, agli stranieri. Nel mio primo anno di liceo ci sono stati tre bocciati ed erano tre figli di immigrati. Sembrava quasi ci fosse, sotterraneo, un intento di scremare le differenze per arrivare alla fine del percorso scolastico con un gruppo di alunni omogeneo. E questo mi è sempre pesato molto.
Poi mi ha sempre colpito molto, quando si parla di scuola, l’unilateralità dell’approccio: a parlare, a essere ascoltati, a essere ritenute voci di valore sono sempre gli insegnanti, spesso i genitori, a volte i presidi. Gli studenti sono considerati semplicemente dei contenitori da riempire.
E anche quando l’oggetto di studio è il disagio che gli adolescenti vivono a scuola, e che magari esternano con atti di teppismo piuttosto che col menefreghismo verso la cultura, l’approccio è sempre un po’ dall’alto, come si osservasse qualcuno su un altro pianeta. Nessuno rivolge mai agli studenti domande semplici e dirette, a cui probabilmente potrebbero dare risposte altrettante chiare di quelle degli adulti. E non mi riferisco soltanto a questioni di merito come il funzionamento della scuola pubblica, la didattica o l’impostazione del sistema educativo italiano, ma anche a problematiche su cui a livello sociale c’è ampio dibattito: i Pacs, la questione dell’identità sessuale, la diffusione delle droghe leggere. Perché non si può ascoltare chi davvero vive questi problemi quasi come delle tappe formative? Prendiamo le droghe leggere: qualunque studente di scuola media superiore ha una conoscenza, perlomeno indiretta, del problema, e probabilmente avrebbe delle risposte da dare…
E poi ci sono i mille problemi che non vengono affrontati o che vengono affrontati, appunto, solo come problemi. Scatta subito la problematizzazione del conflitto, visto come aspetto da sradicare, da rimuovere, o, peggio, da mettere semplicemente da parte senza affrontarlo. Mentre invece è affrontando le questioni, la voglia di protestare, il conflitto generazionale tra studenti e insegnanti, che probabilmente si riuscirebbe a tirare fuori qualcosa di più positivo. L’atteggiamento sulle droghe leggere è emblematico: il problema a scuola esce sempre quando qualcuno viene beccato con addosso sostanze da vendere all’interno dell’istituto. Ecco, io avrei voluto -e avrei risposto con entusiasmo- che un insegnante mi avesse chiesto: “Ma chi di voi fa uso di sostanze? E perché, secondo voi, sono così diffuse? Quale può essere la soluzione e cosa possiamo fare noi per aiutare voi?”. E invece no, si parlava solo di drogati! E chiaramente noi ci chiudevamo a riccio.

Tra i professori si trova di tutto. Tante volte ci si sente un po’ come in una lotteria, ci sono insegnanti sensibili e aperti, ma può sempre capitare l’insegnante catalogato com ...[continua]

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