Cari amici,
una mia conoscente è madre di due ragazzini. Potrebbero essere i due giovani principi di una favola: l’uno chiaro, l’altro scuro. Nel tempo libero suonano la chitarra e la batteria in un gruppo fragorosamente disarmonico, hanno la ragazza, studiano per gli esami e comunicano tra loro mediante cenni della testa e mezze frasi. La madre li protegge con fervore, quasi fossero due fragili creature che potrebbero spezzarsi alla prima folata di vento. Ricordo di essermi chiesta come sarebbe stato per lei se i suoi figli fossero vissuti un centinaio d’anni fa, quando la prima guerra mondiale chiedeva ed esigeva che i giovani in buona salute si arruolassero come volontari; quale pena avrebbe provato, salutandoli da un binario, mentre un treno li portava a un campo militare dove, durante la desolante messinscena di un attacco contro bersagli vivi, avrebbero imparato a prendere a baionettate degli spaventapasseri imbottiti; come, spediti al fronte scarsamente equipaggiati e troppo spesso provvisti di armi difettose, si sarebbero ubbidientemente lanciati all’attacco sotto il fuoco dell’artiglieria, le granate, il gas o le mitragliatrici o il fuoco dei cecchini, domando, in qualche modo, la loro paura mortale, e se ne fosse morto uno, se fossero morti entrambi, cosa sarebbe rimasto alla madre se non il vuoto; lo stesso vuoto di centinaia e migliaia di altre madri. Il sacrificio di intere generazioni, le vite solitarie di donne e ragazze private del tocco o della presenza di un uomo. Non furono soltanto quei giovani soldati ad essere assassinati in massa, ma il potenziale del futuro.
Oggigiorno la copertura mediatica dell’argomento è notevole: progetti comunitari, libri e recensioni, fiction, documentari e programmi radiofonici. Chiedete a una classe di bambini se hanno mai sentito parlare della Grande guerra: alzeranno tutti la mano. La sola emittente BBC ha in previsione 2.500 ore di programmazione sul conflitto e sulla Prima guerra mondiale vengono allestite mostre: le sue origini, la sua evoluzione. Significa vivere ogni giorno in un tempo storico parallelo. L’Imperial War Museum sta raccogliendo migliaia e migliaia di racconti familiari inediti destinati a diventare una risorsa per l’eternità. La nazione sta conducendo un’operazione straordinaria; se al primo round fu la guerra a coinvolgere ogni singola vita britannica, oggi ogni singola vita britannica è coinvolta in questa stupefacente copertura mediatica.
Nonostante l’onnipresenza dei monumenti ai caduti, visibili in tutti i paesi e città della Gran Bretagna, la Prima guerra mondiale è sempre stata semisconosciuta. Spesso i sopravvissuti al massacro mantennero il silenzio per un cinquantennio o più, aprendosi solo mentre si avvicinavano alla fine dei loro giorni. Harry Patch, il più anziano combattente sopravvissuto alla trincea, morto lo scorso anno all’età di 111 anni, non fece parola del conflitto per decenni, fino al suo centesimo compleanno. Quando parlò, descrisse la guerra come "un massacro legalizzato”.
L’aspetto più interessante di quest’anno dedicato al ricordo è il sottile contrasto fra il patriottismo della memoria e il riconoscimento della tragica responsabilità dell’indicibile. Jeremy Paxman, nel suo documentario sulla Prima guerra mondiale, è molto preciso in proposito: si tratta di una guerra che doveva essere combattuta. Era necessaria. Gli storici discutono sul fatto che il conflitto avrebbe potuto essere evitato nelle cinque settimane che portarono alla dichiarazione di guerra del 3 agosto 1914. Ogni leader politico e militare coinvolto si trova sotto la lente mediatica.
Eppure, per molti -soprattutto i giovani- è quasi impossibile accettare quanto viene rivelato oggi sul passato. Il mondo è cambiato così radicalmente che è difficile osservare il passato senza filtrarlo attraverso il prisma del presente. Come si fa a capacitarsi dell’alto numero di decessi e del profondo squallore della trincea? Come possono i dodicenni di oggi identificarsi con i dodicenni di ieri, che si arruolavano per morire all’età di tredici anni sui campi di battaglia della Somme? Come possiamo percepire il senso di identità nazionale che portò l’intero paese a trasformarsi in una macchina da guerra? Oggi, nel bene e nel male, la percezione di noi stessi e di come viviamo è cambiata: siamo uniti al nostro tempo anima e corpo. Tuttavia è proprio oggi che abbiamo bisogno che qualcuno ci ricordi il nostro bisogno di verità nella vita pubblica come in quella privata.
Tutta questa enfasi sull’unità rende praticamente inconcepibile la separazione della Scozia dal Regno Unito; non certo perché gli scozzesi avrebbero nostalgia di noialtri, ma perché siamo noi ad avere bisogno della nazione scozzese. Ci rende umani. In occasione della notte dei Brit Awards, David Bowie ha implorato la Scozia di rimanere con noi. La Scozia ci serve: ci serve Edimburgo, la città illuminista che ci ha dato David Hume; ci servono la creatività di Glasgow; le montagne, i fiumi, i paesi e le città, la natura, gli uomini e le donne scozzesi; la cultura che ci hanno donato uomini di coscienza: il portavoce dell’ex Primo ministro John Smith, del partito laburista, per nominarne uno. Per comprendere i veri bisogni della Scozia, dobbiamo osservare il distorto campo di battaglia di Londra attraverso il prisma del Nord.
©Belona Greenwood
(traduzione a cura di Antonio Fedele)