I Disability studies. Tu oggi sei certamente una delle esponenti principali dei disability studies, ma come sei approdata a questo ambito di studi, tramite la tua particolare esperienza di vita, legata a tua figlia, o anche attraverso un percorso di natura filosofica e teorica? E nell’ambito dei disability studies, un universo piuttosto articolato, a quali correnti ti senti più vicina?
Nei Disability Studies mi sono imbattuta casualmente. La mia intenzione era quella di mettere per iscritto gli insegnamenti che, giorno per giorno, traevo dalla vita con mia figlia e di sottolinearne le importanti implicazioni filosofiche. Ma quando iniziai a scrivere, scoprii lo straordinario lavoro che era stato svolto in questo campo di studi e ricerche. Una parte di questo lavoro mi aiutò a vedere in maniera diversa la mia vita con mia figlia, e un’altra parte fece di me una madre più sensibile alla condizione di una figlia disabile; per altri versi, però, sentivo che esso non rispecchiava la mia esperienza con una persona affetta da una seria disabilità cognitiva. I testi dei Disability Studies sono scritti da persone colpite esclusivamente da disabilità fisiche, oppure da persone che soffrono di qualche forma di disabilità cognitiva che tuttavia non ne compromette seriamente le funzioni intellettive.
Quasi per definizione, nessuna opera è stata scritta da autori affetti da disabilità paragonabili a quelle di mia figlia. Inoltre, la disabilità intellettiva (ossia quella che fino a poco tempo fa definivamo "ritardo mentale”) ha occupato a lungo il livello più basso nella gerarchia delle disabilità: è la disabilità alla quale coloro che soffrono di altri tipi di disabilità non vorrebbero mai essere associati. Questa mia osservazione potrebbe apparire troppo dura, ma quando ho iniziato a esplorare la letteratura dei Disability Studies ho riscontrato una scarsa consapevolezza del fatto che ciò che si dimostra appropriato per le persone con disabilità fisiche potrebbe rivelarsi inadeguato per le persone con disabilità cognitive. Inoltre, mi inquietava il fatto che alcuni dei valori abbracciati con maggior convinzione dalle persone più vicine all’esperienza della disabilità -valori quali l’indipendenza o l’autonomia, che mia figlia sarebbe incapace di conseguire- non rappresentavano altro che l’acritica trasposizione dei valori della società "abile” dominante. Guardando alla vita con mia figlia, e alla vita che cercavo di costruire per lei, sentivo il bisogno di contestare la concezione che assegna un particolare valore a cose come l’indipendenza. Al contrario: ciò che ho appreso dalla mia vita con mia figlia è proprio il significato e l’inevitabilità della dipendenza. Così, mentre intendevo sottolineare e celebrare i successi raggiunti dalla comunità delle persone disabili, sentivo anche il bisogno di mettere in discussione alcuni dei punti di vista maggiormente condivisi al suo interno.
La risposta alla tua domanda -se ho abbracciato questo campo di studi attraverso la mia particolare esperienza di vita o lungo un percorso di natura filosofica e teorica- è entrambe le cose. Ma il coraggio di scrivere di Sesha in un contesto filosofico, di parlare della sua disabilità intellettiva in un ambiente intellettuale, mi è stato dato dal lavoro che avevo svolto nell’ambito della filosofia femminista e, in particolare, di quella sua peculiare prospettiva di ricerca sviluppatasi come "etica della cura”.
Quanto alla domanda se io mi senta più vicina alla filosofia ovvero ai Disability Studies, io sarò sempre una filosofa: non per via della mia istruzione o professione, ma per temperamento. Io pensavo filosoficamente prima di prendere in mano il mio primo testo di filosofia. Tuttavia non sarò mai una filosofa ortodossa, interessata unicamente alle m ...[continua]
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