Interventi di Gaetano Insolera e Tommaso Guerini
discussioni
Una Città n° 223 / 2015 giugno-luglio
Articolo di Gaetano Insolera, Tommaso Guerini
Il metodo mafioso
A distinguere l'associazione per delinquere di stampo mafioso da altre associazioni criminose è il metodo, e cioè l'avvalersi della forza di intimidazione e la conseguente condizione di assoggettamento e di omertà; i dubbi che sorgono davanti all'inchiesta “mafia capitale” e sul ricorso all’art. 416bis, che mette in moto un formidabile impatto sanzionatorio; il rischio, grave, che se tutto diventa mafia allora niente è mafia. Interventi di Gaetano Insolera e Tommaso Guerini.
Gaetano Insolera, avvocato cassazionista, ordinario di Diritto Penale all’Università di Bologna, dal 2004 dirige il ciclo di seminari "Lavori in corso”. Tommaso Guerini è avvocato penalista. Gli interventi qui pubblicati sono stati raccolti in occasione del Seminario di Lavori in Corso dal titolo "Discorso sul metodo mafioso".
Gaetano Insolera
Nelle ultime settimane l’inchiesta "Mafia capitale” ha occupato in modo pressoché quotidiano le cronache dei giornali, dove il taglio ricostruttivo è lo stesso rinvenibile nei provvedimenti coercitivi emessi dal Giudice per le indagini preliminari. Oggi possiamo fare riferimento anche a una recente sentenza della Cassazione (Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 625/2015) che si è occupata, in sede cautelare, di questa vicenda, avvallando un inquadramento dei fatti contestati agli indagati entro la cornice del delitto di associazione mafiosa. Perché quello sull’inchiesta "Mafia capitale” è un discorso sul metodo mafioso? Perché la fattispecie cui fa riferimento l’art. 416bis del Codice penale (introdotto dal 1982 a seguito di una serie di fatti drammatici), l’associazione per delinquere di stampo mafioso, si distingue da quella ordinaria (art. 416 c.p.) fondamentalmente per il "metodo mafioso”: l’avvalersi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà. Certo, c’è anche la proiezione finalistica: gli scopi dell’associazione di tipo mafioso sono plurimi rispetto al generico contenitore dello scopo di commettere più delitti dell’articolo 416 semplice. L’elemento del metodo costituisce un aspetto che si discosta dalla tradizione rappresentata dal delitto di associazione per delinquere. Quanto alle finalità, la novità era costituita dallo scopo di acquisire il controllo o la gestione di attività economiche, ecc., per realizzare profitti ingiusti, ovvero di influire sulle consultazioni elettorali. Soprattutto la prima finalità, quella di incidere sulla realtà economica del contesto in cui l’associazione opera, al momento dell’entrata in vigore di quest’incriminazione, sollevò qualche dubbio di costituzionalità in relazione all’art. 18 (libertà di associazione). La finalità di influenza, di intervento nella realtà economica si connota infatti in termini di illiceità civile o amministrativa, quindi extrapenale. L’argomento fu comunque superato proprio sul rilievo assorbente del metodo come previsto dall’art. 416bis. E questo conferma l’importanza decisiva di quell’elemento nell’economia della fattispecie.
Nel suo lento affermarsi attraverso l’interpretazione e gli apporti della letteratura penalistica, il 416bis si è allontanato, nella realtà applicativa, dal cosiddetto paradigma territoriale, sociologico. Per lungo tempo, si è discusso se fosse opportuno creare una legislazione "territoriale” rispetto a quelle che ancora oggi vengono chiamate "le regioni a presenza mafiosa”. Dopo una complessa elaborazione da parte di giuristi e di politici, prevalse una fattispecie non esclusivamente rivolta a fenomeni criminali localmente collocati, attraverso quella clausola finale dell’art. 416bis, che, da un lato, affianca alla mafia, la camorra, la ‘ndrangheta e ora anche associazioni straniere; dall’altro, si riferisce ad altre associazioni comunque denominate che perseguono scopi corrispondenti "valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo”.
Da questo punto di vista, ritengo che certe preoccupazioni, che hanno portato ad esempio ad arricchire la norma del riferimento ad associazioni "anche straniere”, potevano essere superate. Un’altra considerazione: prima che si precisassero le linee interpretative dell’associazione di tipo mafioso, si prospettò anche una lettura del "si avvale della forza di intimidazione”, come "che intende avvalersi”, cioè come requisito programmatico, strumentale al perseguimento delle finalità. La giurisprudenza ha infine escluso che l’articolo 416bis, l’associazione di tipo mafioso, si applichi se il metodo non è un requisito in atto.
In breve, occorrerà dimostrare che l’associazione si avvale del metodo. Non a caso l’articolo 416bis è oggetto che presuppone un’opera dimostrativa, da parte dell’accusa, assolutamente più consistente di quella che caratterizza l’associazione per delinquere ordinaria. Un maggiore onere dimostrativo che si spiega anche con il carico sanzionatorio del 416bis, che nel tempo è stato aumentato in modo assai rilevante; non c’è stato pacchetto sicurezza che non ne abbia previsto un indurimento, fino alla recente legge del giugno 2015. Non a caso si è parlato di "doppio binario”: processo speciale ed esecuzione penitenziaria speciale. Qualcuno parla di una forma di tortura, in riferimento al 41bis, quindi proprio un binario speciale.
Ma veniamo a "Mafia capitale”. Bene, il problema con cui questo processo si dovrà confrontare è proprio quello del metodo, dell’"avvalersi della forza di intimidazione, ecc”.
Dalle informazioni ricavabili dalla lettura di alcuni atti giudiziari e da quella dei media, il fenomeno criminale sembra incentrarsi sulla cosiddetta corruzione politico amministrativa. In prima approssimazione ci dobbiamo allora chiedere: chi è l’assoggettato? Nei confronti di chi viene esplicitata l’intimidazione mafiosa? Riguarda i funzionari pubblici corrotti? Nella prima ordinanza cautelare del Giudice per le indagini preliminari, il discorso proposto è il seguente: in realtà, la capacità di questo gruppo di corrompere politici e funzionari contribuisce a creare una immanente forza di intimidazione che si scarica sulle imprese concorrenti nella partecipazione alle gare per l’aggiudicazione degli appalti.
Ulteriore passaggio: qual è il serbatoio di questa forza di intimidazione? In un recente articolo di Costantino Visconti (uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno mafioso, A Roma una mafia c’è. E si vede... in penalecontemporaneo.it), a commento della citata sentenza della Cassazione, si parla di "accumulo” di un patrimonio criminale, o meglio di "fama criminale” legata ai collegamenti di uno dei capi, cioè Carminati; il riferimento è alla banda della Magliana.
Ecco, qui c’è un altro aspetto singolare della vicenda, da intendersi proprio come vicenda giudiziaria: il fatto che la ricostruzione di questa genealogia -non lo dico provocatoriamente- riprende forti riferimenti letterari. E quindi la forza di intimidazione scaturirebbe da questa aura di criminalità che però ha come destinatari non i funzionari corrotti, ma i potenziali o effettivi concorrenti economici delle imprese mafiose. Bene, è coerente questo discorso con la specificità dell’articolo 416bis? Qui si tratta di valutare, da un punto di vista più tecnico, quanto questa operazione corrisponda alle capacità di prestazione dell’art 416bis. Dice ancora Visconti: "In ogni caso, però, sul piano giuridico penale, possiamo considerare acquisito un dato rilevante: a onta della sua complessità strutturale, la fattispecie incriminatrice di associazione mafiosa si conferma strumento normativo assai duttile e suscettibile di perfomances verosimilmente non del tutto esplorate”. Si apprezza insomma la duttilità di un articolo, 416bis, che, proprio per le ragioni che dicevamo, per il formidabile impatto sanzionatorio e per le conseguenze processuali e penitenziarie, duttile non dovrebbe proprio essere!
È allora significativo che nella ricordata sentenza della Cassazione, quando si tratta di esemplificare quelle che possono essere le emergenze effettive della prevaricazione mafiosa, si citi un episodio nel contesto di un’attività di estorsione e di usura, praticate dal gruppo di Carminati, in cui un certo "Curto di Montespaccato”, nel corso di una telefonata avrebbe detto all’interlocutore: "Senti, daglieli i soldi a quelli...”, insomma paga perché è brutta gente. Ecco, dedurre il metodo mafioso in atto solo da episodi di questo genere non mi sembra sufficiente. Se poi si prova a dire che i funzionari pubblici cedevano perché intimiditi, sconvolgiamo lo schema plurisoggettivo della corruzione: da una parte abbiamo, in vero improbabile, l’ipotesi speciale di concorso dell’art. 54, 3° comma c.p. (esimente dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia), dall’altro la questione dell’omertà indotta. Un requisito per così dire consustanziale alla corruzione passiva. Insomma, un ginepraio.
L’associazione di tipo mafioso dovrebbe essere lo strumento più appuntito nella tutela dell’ordine pubblico quando si è in presenza di un territorio soggiogato. È applicabile in presenza di una specifica realtà, le gare d’appalto del Comune di Roma? Qui qualche campanello d’allarme avrebbe dovuto suonare anche tra i giornalisti. Purtroppo in "Mafia capitale” ci sono tante cose, anche i conflitti politici all’interno del partito di maggioranza. Comunque, dicevo, qualche campanello d’allarme dovrebbe suonare rispetto all’idea di contrastare un fenomeno -la cosiddetta criminalità politico-amministrativa- con l’utilizzo invece del reato di associazione di tipo mafioso. Un notista giudiziario molto prudente come Bianconi del "Corriere della Sera”, di fronte all’ipotesi del commissariamento del Comune di Roma, ha fatto notare: "Stiamo parlando forse del 2% degli appalti del Comune di Roma”. Per non citare altri commentatori, decisamente critici, come Ferrara su "Il Foglio” o anche Bordin, di Radio Radicale. Un’ultima osservazione che mi nasce dalla lettura del commento di Visconti. Direi che il materiale probatorio raccolto è importante. La sostanza criminale c’è. Il problema, ripeto, è l’associazione di tipo mafioso, per tutte le cose già dette. Qualcuno potrebbe pensare: di fronte a una fortissima pressione mediatica è necessario introdurre nuove fattispecie, nuovi delitti associativi. Forse, alla base del sostegno all’inchiesta Mafia capitale c’è l’intento di contestare questa idea. Invece di congestionare ulteriormente il sistema, di inserire nuova materia nel "doppio binario”, contro la criminalità politico-amministrativa nelle forme più gravi e sistemiche, l’associazione di tipo mafioso, enfatizziamo la flessibilità, la volatilità del 416bis. Io, da penalista, la trovo una strategia non condivisibile, non solo perché recita il de profundis di un corollario del principio di legalità -determinatezza e tassatività-, ma soprattutto perché conduce alla perdita di qualsiasi capacità connotativa del concetto di mafia. Qui rischia di trovar conforto quel modo di dire: "la mafia non esiste, è un’invenzione dei continentali invidiosi delle bellezze della Sicilia”. Perché, attenzione, se tutto diventa mafia, la mafia non esiste più; se la trovi dappertutto si perde qualsiasi capacità identificativa e quindi, se tutto è mafia, niente è mafia, la mafia non esiste.
Tommaso Guerini
È difficile scindere un ragionamento su questa inchiesta che abbia la pretesa di essere scientifico, da una complessa gamma di sensazioni che non hanno niente a che fare con la dogmatica. Anche solo ragionando sul titolo dell’articolo di Costantino Visconti: "A Roma una mafia c’è. E si vede...”, l’impressione è che prevalga sull’ambito razionale la soddisfazione di vedere finalmente realizzarsi quanto profetizzato da una parte della letteratura, della magistratura e della politica, che da tempo sostengono che la città di Roma è ormai ridotta a una sorta di cloaca maxima, in cui tutto può accadere e tutto viene digerito, senza alcuna distinzione tra criminalità dei colletti bianchi e criminalità da strada.
A leggere le cronache, sembra di trovarsi di fronte alla legittima soddisfazione di chi vede finalmente dimostrato un teorema la cui struttura è nota da tempo. Allo stesso modo, osserviamo come vi sia molta letteratura in questa inchiesta.
Oltre ai romanzi di De Cataldo -penso in particolare a "Nelle mani giuste”, nel quale viene prefigurata proprio la deriva "affarista” di ciò che rimane della banda della Magliana- c’è un altro testo molto interessante, dove ritroviamo i protagonisti di questa ordinanza, che è un vecchio libro di Otello Lupacchini, già giudice istruttore del processo e che ricorda una cosa che oggi ci dovrebbe far riflettere: nei processi alla Banda della Magliana non fu possibile dimostrare il reato associativo, se non in una fase tarda. Ci trovavamo quindi di fronte a un’associazione che, nonostante fosse all’apice del suo potere, tale era più nel sentire comune che nelle carte giudiziarie e, infatti, la montagna di carte sui delitti della Banda della Magliana ha partorito un topolino.
Accanto alla vicenda della Magliana, peraltro insidiosa perché libri, film, ecc., ci danno l’idea di un fenomeno consolidato, dobbiamo collocare la storia dei Nar, i nuclei armati rivoluzionari, temibilissima formazione di estrema destra il cui capo era Giusva Fioravanti, tristemente noto a Bologna per la bomba della stazione.
È su quei due pilastri che si erige la struttura criminale di Carminati, detto "Er cecato”, perché il criminale romano per eccellenza deve avere il suo soprannome, che è il vero protagonista di questa vicenda. Figura interessante, quella di Carminati.
Se andiamo a vedere le carte, non era uno dei capi della Banda della Magliana e anche nei Nar svolgeva funzioni esecutive, ma non dirigenziali o ideologiche.
Del resto, la sua fedina penale non è immacolata, ma non è neanche quella di un ergastolano. Il suo effettivo peso criminale è un elemento ambiguo, visto che viene più volte citato come componente della sua "fama” criminale: l’uomo è molto rispettato -anche- perché è sempre riuscito a farla franca.
Sempre seguendo le impressioni e le suggestioni, l’idea che ho maturato riguardo a Carminati è che sia un criminale che è sempre riuscito a vendersi molto bene e che, restando ai margini di fenomeni che hanno avuto altri protagonisti, ha saputo massimizzare i propri profitti.
Sicuramente è un uomo non banale, che ha dimostrato di conoscere e di sapere applicare le regole della comunicazione.
In questo senso, mi azzardo a dire che siamo di fronte a un criminale ben integrato nella contemporaneità.
Un esempio su tutti: tra gli elementi che vengono più volte tirati in ballo tanto nell’ordinanza quanto nella sentenza della Cassazione, c’è un articolo dell’"Espresso”, uscito circa un anno e mezzo fa sui "Quattro Re di Roma”, in cui si dice: la Capitale dal punto di vista criminale è divisa a spicchi: ci sono i Casamonica, ci sono altri clan e poi c’è Carminati.
Bene, nelle intercettazioni telefoniche, sentiamo Carminati dire cose del tipo: "Bah, quello che dicono sull’‘Espresso’ è vero fino a un certo punto, però usiamolo! Sto diventando famoso, beh, diciamolo a quelli a cui facciamo l’estorsione...”.
Apro una parentesi: questa è un’inchiesta fatta prevalentemente di intercettazioni telefoniche, in cui Carminati, Buzzi, per non parlare dei loro sottopancia, dimostrano una loquacità incredibile e raccontano un sacco di cose che sono però anche dei programmi, dei progetti, forse anche un libro dei sogni.
Uno dei punti a mio giudizio più critici di tutta questa inchiesta sta proprio nel fatto che, oltre alle parole, c’è molto poco. Lo dico perché studiando le carte sono stato molto colpito da un aspetto, se volete marginale, ma rivelatore di una tendenza di fondo.
All’associazione "Mafia Capitale” viene contestata, tra le circostanze aggravanti, la disponibilità di armi. Eppure non hanno sequestrato neanche un bossolo, una pallottola; non c’è una pistola sotto sequestro. Da cosa traggono la disponibilità di armi? Dal fatto che in alcune intercettazioni telefoniche si parla di rapine (quindi si presume che le armi ci siano) e di silenziatori.
Chiusa parentesi. Torniamo alle questioni direttamente attinenti al "discorso sul metodo” nell’inchiesta "Mondo di mezzo”.
Secondo l’accusa, poiché gode di una notevole "fama criminale”, Mafia Capitale non ha quasi mai bisogno di utilizzare la propria forza e in questo, seguendo il ragionamento del Gip, essa assomiglia alle "nuove mafie”, i cui esponenti beneficiano del legame con le consorterie di provenienza. È un parallelo senz’altro suggestivo, anche se non si può fare a meno di notare che nel caso della "esportazione” delle mafie, ci troviamo di fronte a strutture che mantengono un saldo controllo dei loro territori d’origine, mentre nel caso di specie né la Banda della Magliana, né i Nar risultano più esistenti da decenni.
Ci troveremmo quindi di fronte a una "forza di intimidazione” che promana da due organizzazioni criminali ormai disciolte da decenni. Una "forza di intimidazione” che assomiglia molto a una "forza di suggestione”.
Personalmente, ritengo che "Mafia Capitale” sia una entità tipicamente romana.
Con ciò intendo dire che non si tratta di una mafia autoctona che si è sviluppata a Roma, bensì di una tipica forma di manifestazione della criminalità romana.
Non è un mistero per nessuno, infatti, che la criminalità romana si caratterizzi da sempre per alcune attività "tipiche”, tra le quali rientrano senz’altro l’estorsione e l’usura. Questo è quello che faceva il gruppo di Carminati. Mi chiedo dunque: dove sta la differenza con i "cravattari” di Campo de’ Fiori o di Trastevere?
Lo snodo di questa vicenda si ha quando viene eletto Sindaco di Roma Capitale un signore che non ha mai fatto mistero di essere stato, nella sua giovinezza, molto vicino all’ambiente dell’estrema destra eversiva.
Quando un "vecchio amico” diventa Sindaco, la rete di Carminati si attiva, cercando di trarne beneficio. È da qui che nasce quel "Mondo di Mezzo”, che Carminati teorizza, forse dopo aver visto "Il signore degli anelli”, che peraltro è sempre stato un testo fondamentale per la destra italiana, che non a caso organizzava i "Campi Hobbit”.
La questione merita una piccola digressione. Cerco di sintetizzare il pensiero del Cecato sul punto. Lui dice: ci sta il mondo di sopra, la politica, gli affari, gli appalti, il rapporto tra attività economica ed esercizio del potere; e poi ci sta il mondo di sotto: usura, estorsione, criminalità da strada. Mafia Capitale si propone appunto come una cerniera. Mi pare che gran parte dell’ipotesi accusatoria si fondi sulle tesi del principale indagato.
Cerchiamo, invece, di esaminare i fatti.
Al di là delle aspirazioni di Carminati, per ora siamo di fronte a un’associazione per delinquere dedita all’estorsione e all’usura, che aggiunge all’elenco delle proprie attività anche la corruzione e la turbativa d’asta.
Con riferimento alla prima gamma di attività, dobbiamo però considerare un aspetto teorico a mio giudizio dirimente: è particolarmente insidioso individuare con precisione il confine tra un’associazione a delinquere dedita all’estorsione e all’usura e un’associazione di tipo mafioso. Perché che cosa fa chi estorce? Soggioga la propria vittima, utilizza una forza che promana dalla minaccia.
Torniamo al momento del "salto di qualità”.
Con la Giunta Alemanno per Carminati e i suoi si apre un nuovo mercato e, contestualmente, si apre una grave crisi economica.
Come noto, le strutture criminali organizzate hanno sempre grandi risorse liquide da reimpiegare. Carminati decide così di investire nella corruzione.
Ora, c’era sicuramente una componente della banda che sentiva di star facendo il salto di qualità, ma che questo dato arrivi a integrare l’esercizio effettivo di metodo mafioso, a mio giudizio, non è del tutto provato; perlomeno non negli atti che abbiamo potuto leggere fino ad ora.
Un’altra questione: a leggere con attenzione le ordinanze e le sentenze ci rendiamo conto di un aspetto. Entrambi i provvedimenti dicono che un’associazione di tipo mafioso non può nascere ex novo: deve costituire l’evoluzione, la mutazione genetica di un’associazione per delinquere semplice. Secondo il Gip e la Cassazione questo avviene quando Carminati si unisce a Buzzi. Chi è Buzzi? Buzzi era un criminale comune che a un certo punto commette un omicidio per il quale viene condannato a scontare una pena detentiva lunga. In carcere fonda la prima cooperativa di detenuti mai creata in Italia e si propone all’esterno come esempio di detenuto riabilitato, tanto da ottenere la grazia e, una volta uscito di prigione, mettere in piedi una galassia di cooperative sociali, tutte più o meno denominate "29 giugno”, giorno in cui, nel 1984, si tenne a Rebibbia, alla presenza, tra gli altri, del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il primo convegno in carcere sul tema della rieducazione e del reinserimento dei detenuti.
Dunque, anche Buzzi, era un personaggio noto, anche perché dopo che nel 1994 il Presidente Scalfaro gli concesse la grazia, proseguì il suo impegno per i detenuti e gli ex detenuti fondando numerose cooperative sociali.
Nelle carte, la genesi del rapporto tra Buzzi e Carminati non è chiaramente delineata: non si capisce chi dei due avvicina l’altro. Di sicuro i due diventano un tutt’uno al momento del cambio di amministrazione. Alemanno fa un solo mandato, ma ormai Carminati, anche grazie alle coop di Buzzi, è entrato nel sistema, cioè nelle gare per lo smaltimento rifiuti e alcuni lotti di manutenzione dei giardini, oltre alla gestione dei campi per gli immigrati e per i rom. Infatti, questa strana ibridazione tra l’ex Nar e l’uomo vicino al mondo delle Cooperative rosse ha come scopo, da un lato, di continuare a gestire gli affari di strada e, dall’altro, di infiltrarsi nell’amministrazione.
Dunque, a voler seguire pedissequamente l’interpretazione data dallo stesso Carminati, abbiamo un mondo di sopra e un mondo di sotto. Ebbene, la forza di intimidazione viene sistematicamente utilizzata nel mondo di sotto, ma, attenzione, nel mondo di sopra l’associazione di Carminati e Buzzi non ha mai torto un capello a nessuno: si limitava a corrompere. Lo riconosce la stessa Cassazione, quando afferma che era molto più comodo per loro corrompere piuttosto che intimidire.
Se è così, però, abbiamo una scissione tra due elementi che il terzo comma dell’art. 416bis c.p. considera unitariamente.
Se ci troviamo di fronte a una forza di intimidazione che viene utilizzata esclusivamente nel "mondo di sotto”, com’è possibile che essa sia causa della condizione di assoggettamento e omertà che l’ordinanza ritiene sussistere nel "mondo di sopra”?.
In altre parole, non comprendo come sia possibile che un elemento utilizzato in un "settore” del tutto distinto da quello della criminalità politico-amministrativa possa avere l’effetto intimidatorio tipico del metodo mafioso.
Eppure, dice l’ordinanza, vi è stata omertà anche con riferimento ai rapporti con la Pubblica Amministrazione.
Deriva dalla forza di intimidazione del vincolo associativo?
A mio giudizio, se omertà vi è stata, essa deriva dalla corruzione.
Ricordiamoci che non c’è reato che provoca maggior omertà della corruzione. Del resto, il pubblico ufficiale corrotto -lo cita anche un passaggio della sentenza- si sarebbe dovuto denunciare da solo. E non è nemmeno vero che ci fosse una corruzione così penetrante. Parliamo di due ordinanze che hanno colpito, tra mondo di sopra e mondo di sotto, circa ottanta persone in tutto fino ad oggi.
Su quest’ambito fattuale si innestano le considerazioni della Corte di Cassazione, in base alle quali, nell’art. 416bis "non rientrano solo grandi associazioni di mafia dotate di mezzi finanziari imponenti, in grado di assicurare l’omertà attraverso il terrore […] rientrano anche piccole mafie con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone) non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o settore di attività avvalendosi però del metodo di intimidazione”.
Ora possiamo definire "mafia” un’associazione che intimidisce, ad esempio un grande condominio di periferia? Può davvero esistere, nello schema del 416bis, una mafia così?
Se la risposta fosse positiva, viene da pensare che ci troviamo di fronte a un’applicazione molto elastica del 416bis.
In conclusione, un breve riepilogo sulla situazione attuale della criminalità organizzata italiana, per come emerge dal complesso delle inchieste giudiziarie attualmente aperte.
Da un lato abbiamo le mafie storiche, situate in Campania, Sicilia, Calabria, probabilmente anche un po’ di Puglia, che operano nel loro territorio e seguono l’archetipo del 416bis c.p.
Abbiamo poi le mafie etniche, che a seguito della riforma del 2008, rientrano ormai pacificamente nell’ambito del 416bis. Abbiamo inoltre le mafie di esportazione, ossia situazioni nelle quali le mafie tradizionali colonizzano altri territori, avvalendosi della fama criminale che gli deriva dall’essere una "diramazione” della casa madre e avvalendosi della forza di intimidazione che da tale legame deriva. È il caso, tra gli altri, della ‘ndrangheta emiliana, di cui si sta occupando la Dda di Bologna nell’ambito dell’inchiesta Aemilia.
Infine abbiamo queste mafie autoctone, che possono nascere anche solo da tre persone e che si avvalgono della corruzione quale elemento del metodo mafioso, il che, a mio avviso rappresenta una contraddizione.
Mi sia concessa una battuta: crediamo davvero che un’associazione che corrompe sistematicamente, che doveva dare cento euro anche all’usciere del Campidoglio, possa essere così temuta da suscitare "una condizione di assoggettamento e di omertà” di intensità tale da rientrare nel paradigma del 416bis? E comunque la lesione all’ordine pubblico, cioè al bene giuridico tutelato dalla norma, dov’è?
Non è una questione peregrina.
A seguito dell’ultima modifica dell’art. 416bis c.p., entrata in vigore il 14 giugno 2015, la fattispecie punita dal primo comma, cioè la mera partecipazione all’associazione di tipo mafiosa viene oggi punita con la reclusione da 10 a 12 anni, mentre il secondo comma prevede pene che vanno dai 12 ai 18 anni di reclusione.
È ragionevole applicare pene così significative a una piccola "mafia” composta da sole tre persone?
È chiaro che non mi riferisco, con quest’ultima osservazione, all’inchiesta "Mondo di Mezzo”, ma occorre tenere sempre presente che le interpretazioni che derogano al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento sovente prendono vita da casi limite per estendersi rapidamente alla quotidianità delle decisioni giudiziarie.
Gaetano Insolera
Nelle ultime settimane l’inchiesta "Mafia capitale” ha occupato in modo pressoché quotidiano le cronache dei giornali, dove il taglio ricostruttivo è lo stesso rinvenibile nei provvedimenti coercitivi emessi dal Giudice per le indagini preliminari. Oggi possiamo fare riferimento anche a una recente sentenza della Cassazione (Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 625/2015) che si è occupata, in sede cautelare, di questa vicenda, avvallando un inquadramento dei fatti contestati agli indagati entro la cornice del delitto di associazione mafiosa. Perché quello sull’inchiesta "Mafia capitale” è un discorso sul metodo mafioso? Perché la fattispecie cui fa riferimento l’art. 416bis del Codice penale (introdotto dal 1982 a seguito di una serie di fatti drammatici), l’associazione per delinquere di stampo mafioso, si distingue da quella ordinaria (art. 416 c.p.) fondamentalmente per il "metodo mafioso”: l’avvalersi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà. Certo, c’è anche la proiezione finalistica: gli scopi dell’associazione di tipo mafioso sono plurimi rispetto al generico contenitore dello scopo di commettere più delitti dell’articolo 416 semplice. L’elemento del metodo costituisce un aspetto che si discosta dalla tradizione rappresentata dal delitto di associazione per delinquere. Quanto alle finalità, la novità era costituita dallo scopo di acquisire il controllo o la gestione di attività economiche, ecc., per realizzare profitti ingiusti, ovvero di influire sulle consultazioni elettorali. Soprattutto la prima finalità, quella di incidere sulla realtà economica del contesto in cui l’associazione opera, al momento dell’entrata in vigore di quest’incriminazione, sollevò qualche dubbio di costituzionalità in relazione all’art. 18 (libertà di associazione). La finalità di influenza, di intervento nella realtà economica si connota infatti in termini di illiceità civile o amministrativa, quindi extrapenale. L’argomento fu comunque superato proprio sul rilievo assorbente del metodo come previsto dall’art. 416bis. E questo conferma l’importanza decisiva di quell’elemento nell’economia della fattispecie.
Nel suo lento affermarsi attraverso l’interpretazione e gli apporti della letteratura penalistica, il 416bis si è allontanato, nella realtà applicativa, dal cosiddetto paradigma territoriale, sociologico. Per lungo tempo, si è discusso se fosse opportuno creare una legislazione "territoriale” rispetto a quelle che ancora oggi vengono chiamate "le regioni a presenza mafiosa”. Dopo una complessa elaborazione da parte di giuristi e di politici, prevalse una fattispecie non esclusivamente rivolta a fenomeni criminali localmente collocati, attraverso quella clausola finale dell’art. 416bis, che, da un lato, affianca alla mafia, la camorra, la ‘ndrangheta e ora anche associazioni straniere; dall’altro, si riferisce ad altre associazioni comunque denominate che perseguono scopi corrispondenti "valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo”.
Da questo punto di vista, ritengo che certe preoccupazioni, che hanno portato ad esempio ad arricchire la norma del riferimento ad associazioni "anche straniere”, potevano essere superate. Un’altra considerazione: prima che si precisassero le linee interpretative dell’associazione di tipo mafioso, si prospettò anche una lettura del "si avvale della forza di intimidazione”, come "che intende avvalersi”, cioè come requisito programmatico, strumentale al perseguimento delle finalità. La giurisprudenza ha infine escluso che l’articolo 416bis, l’associazione di tipo mafioso, si applichi se il metodo non è un requisito in atto.
In breve, occorrerà dimostrare che l’associazione si avvale del metodo. Non a caso l’articolo 416bis è oggetto che presuppone un’opera dimostrativa, da parte dell’accusa, assolutamente più consistente di quella che caratterizza l’associazione per delinquere ordinaria. Un maggiore onere dimostrativo che si spiega anche con il carico sanzionatorio del 416bis, che nel tempo è stato aumentato in modo assai rilevante; non c’è stato pacchetto sicurezza che non ne abbia previsto un indurimento, fino alla recente legge del giugno 2015. Non a caso si è parlato di "doppio binario”: processo speciale ed esecuzione penitenziaria speciale. Qualcuno parla di una forma di tortura, in riferimento al 41bis, quindi proprio un binario speciale.
Ma veniamo a "Mafia capitale”. Bene, il problema con cui questo processo si dovrà confrontare è proprio quello del metodo, dell’"avvalersi della forza di intimidazione, ecc”.
Dalle informazioni ricavabili dalla lettura di alcuni atti giudiziari e da quella dei media, il fenomeno criminale sembra incentrarsi sulla cosiddetta corruzione politico amministrativa. In prima approssimazione ci dobbiamo allora chiedere: chi è l’assoggettato? Nei confronti di chi viene esplicitata l’intimidazione mafiosa? Riguarda i funzionari pubblici corrotti? Nella prima ordinanza cautelare del Giudice per le indagini preliminari, il discorso proposto è il seguente: in realtà, la capacità di questo gruppo di corrompere politici e funzionari contribuisce a creare una immanente forza di intimidazione che si scarica sulle imprese concorrenti nella partecipazione alle gare per l’aggiudicazione degli appalti.
Ulteriore passaggio: qual è il serbatoio di questa forza di intimidazione? In un recente articolo di Costantino Visconti (uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno mafioso, A Roma una mafia c’è. E si vede... in penalecontemporaneo.it), a commento della citata sentenza della Cassazione, si parla di "accumulo” di un patrimonio criminale, o meglio di "fama criminale” legata ai collegamenti di uno dei capi, cioè Carminati; il riferimento è alla banda della Magliana.
Ecco, qui c’è un altro aspetto singolare della vicenda, da intendersi proprio come vicenda giudiziaria: il fatto che la ricostruzione di questa genealogia -non lo dico provocatoriamente- riprende forti riferimenti letterari. E quindi la forza di intimidazione scaturirebbe da questa aura di criminalità che però ha come destinatari non i funzionari corrotti, ma i potenziali o effettivi concorrenti economici delle imprese mafiose. Bene, è coerente questo discorso con la specificità dell’articolo 416bis? Qui si tratta di valutare, da un punto di vista più tecnico, quanto questa operazione corrisponda alle capacità di prestazione dell’art 416bis. Dice ancora Visconti: "In ogni caso, però, sul piano giuridico penale, possiamo considerare acquisito un dato rilevante: a onta della sua complessità strutturale, la fattispecie incriminatrice di associazione mafiosa si conferma strumento normativo assai duttile e suscettibile di perfomances verosimilmente non del tutto esplorate”. Si apprezza insomma la duttilità di un articolo, 416bis, che, proprio per le ragioni che dicevamo, per il formidabile impatto sanzionatorio e per le conseguenze processuali e penitenziarie, duttile non dovrebbe proprio essere!
È allora significativo che nella ricordata sentenza della Cassazione, quando si tratta di esemplificare quelle che possono essere le emergenze effettive della prevaricazione mafiosa, si citi un episodio nel contesto di un’attività di estorsione e di usura, praticate dal gruppo di Carminati, in cui un certo "Curto di Montespaccato”, nel corso di una telefonata avrebbe detto all’interlocutore: "Senti, daglieli i soldi a quelli...”, insomma paga perché è brutta gente. Ecco, dedurre il metodo mafioso in atto solo da episodi di questo genere non mi sembra sufficiente. Se poi si prova a dire che i funzionari pubblici cedevano perché intimiditi, sconvolgiamo lo schema plurisoggettivo della corruzione: da una parte abbiamo, in vero improbabile, l’ipotesi speciale di concorso dell’art. 54, 3° comma c.p. (esimente dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia), dall’altro la questione dell’omertà indotta. Un requisito per così dire consustanziale alla corruzione passiva. Insomma, un ginepraio.
L’associazione di tipo mafioso dovrebbe essere lo strumento più appuntito nella tutela dell’ordine pubblico quando si è in presenza di un territorio soggiogato. È applicabile in presenza di una specifica realtà, le gare d’appalto del Comune di Roma? Qui qualche campanello d’allarme avrebbe dovuto suonare anche tra i giornalisti. Purtroppo in "Mafia capitale” ci sono tante cose, anche i conflitti politici all’interno del partito di maggioranza. Comunque, dicevo, qualche campanello d’allarme dovrebbe suonare rispetto all’idea di contrastare un fenomeno -la cosiddetta criminalità politico-amministrativa- con l’utilizzo invece del reato di associazione di tipo mafioso. Un notista giudiziario molto prudente come Bianconi del "Corriere della Sera”, di fronte all’ipotesi del commissariamento del Comune di Roma, ha fatto notare: "Stiamo parlando forse del 2% degli appalti del Comune di Roma”. Per non citare altri commentatori, decisamente critici, come Ferrara su "Il Foglio” o anche Bordin, di Radio Radicale. Un’ultima osservazione che mi nasce dalla lettura del commento di Visconti. Direi che il materiale probatorio raccolto è importante. La sostanza criminale c’è. Il problema, ripeto, è l’associazione di tipo mafioso, per tutte le cose già dette. Qualcuno potrebbe pensare: di fronte a una fortissima pressione mediatica è necessario introdurre nuove fattispecie, nuovi delitti associativi. Forse, alla base del sostegno all’inchiesta Mafia capitale c’è l’intento di contestare questa idea. Invece di congestionare ulteriormente il sistema, di inserire nuova materia nel "doppio binario”, contro la criminalità politico-amministrativa nelle forme più gravi e sistemiche, l’associazione di tipo mafioso, enfatizziamo la flessibilità, la volatilità del 416bis. Io, da penalista, la trovo una strategia non condivisibile, non solo perché recita il de profundis di un corollario del principio di legalità -determinatezza e tassatività-, ma soprattutto perché conduce alla perdita di qualsiasi capacità connotativa del concetto di mafia. Qui rischia di trovar conforto quel modo di dire: "la mafia non esiste, è un’invenzione dei continentali invidiosi delle bellezze della Sicilia”. Perché, attenzione, se tutto diventa mafia, la mafia non esiste più; se la trovi dappertutto si perde qualsiasi capacità identificativa e quindi, se tutto è mafia, niente è mafia, la mafia non esiste.
Tommaso Guerini
È difficile scindere un ragionamento su questa inchiesta che abbia la pretesa di essere scientifico, da una complessa gamma di sensazioni che non hanno niente a che fare con la dogmatica. Anche solo ragionando sul titolo dell’articolo di Costantino Visconti: "A Roma una mafia c’è. E si vede...”, l’impressione è che prevalga sull’ambito razionale la soddisfazione di vedere finalmente realizzarsi quanto profetizzato da una parte della letteratura, della magistratura e della politica, che da tempo sostengono che la città di Roma è ormai ridotta a una sorta di cloaca maxima, in cui tutto può accadere e tutto viene digerito, senza alcuna distinzione tra criminalità dei colletti bianchi e criminalità da strada.
A leggere le cronache, sembra di trovarsi di fronte alla legittima soddisfazione di chi vede finalmente dimostrato un teorema la cui struttura è nota da tempo. Allo stesso modo, osserviamo come vi sia molta letteratura in questa inchiesta.
Oltre ai romanzi di De Cataldo -penso in particolare a "Nelle mani giuste”, nel quale viene prefigurata proprio la deriva "affarista” di ciò che rimane della banda della Magliana- c’è un altro testo molto interessante, dove ritroviamo i protagonisti di questa ordinanza, che è un vecchio libro di Otello Lupacchini, già giudice istruttore del processo e che ricorda una cosa che oggi ci dovrebbe far riflettere: nei processi alla Banda della Magliana non fu possibile dimostrare il reato associativo, se non in una fase tarda. Ci trovavamo quindi di fronte a un’associazione che, nonostante fosse all’apice del suo potere, tale era più nel sentire comune che nelle carte giudiziarie e, infatti, la montagna di carte sui delitti della Banda della Magliana ha partorito un topolino.
Accanto alla vicenda della Magliana, peraltro insidiosa perché libri, film, ecc., ci danno l’idea di un fenomeno consolidato, dobbiamo collocare la storia dei Nar, i nuclei armati rivoluzionari, temibilissima formazione di estrema destra il cui capo era Giusva Fioravanti, tristemente noto a Bologna per la bomba della stazione.
È su quei due pilastri che si erige la struttura criminale di Carminati, detto "Er cecato”, perché il criminale romano per eccellenza deve avere il suo soprannome, che è il vero protagonista di questa vicenda. Figura interessante, quella di Carminati.
Se andiamo a vedere le carte, non era uno dei capi della Banda della Magliana e anche nei Nar svolgeva funzioni esecutive, ma non dirigenziali o ideologiche.
Del resto, la sua fedina penale non è immacolata, ma non è neanche quella di un ergastolano. Il suo effettivo peso criminale è un elemento ambiguo, visto che viene più volte citato come componente della sua "fama” criminale: l’uomo è molto rispettato -anche- perché è sempre riuscito a farla franca.
Sempre seguendo le impressioni e le suggestioni, l’idea che ho maturato riguardo a Carminati è che sia un criminale che è sempre riuscito a vendersi molto bene e che, restando ai margini di fenomeni che hanno avuto altri protagonisti, ha saputo massimizzare i propri profitti.
Sicuramente è un uomo non banale, che ha dimostrato di conoscere e di sapere applicare le regole della comunicazione.
In questo senso, mi azzardo a dire che siamo di fronte a un criminale ben integrato nella contemporaneità.
Un esempio su tutti: tra gli elementi che vengono più volte tirati in ballo tanto nell’ordinanza quanto nella sentenza della Cassazione, c’è un articolo dell’"Espresso”, uscito circa un anno e mezzo fa sui "Quattro Re di Roma”, in cui si dice: la Capitale dal punto di vista criminale è divisa a spicchi: ci sono i Casamonica, ci sono altri clan e poi c’è Carminati.
Bene, nelle intercettazioni telefoniche, sentiamo Carminati dire cose del tipo: "Bah, quello che dicono sull’‘Espresso’ è vero fino a un certo punto, però usiamolo! Sto diventando famoso, beh, diciamolo a quelli a cui facciamo l’estorsione...”.
Apro una parentesi: questa è un’inchiesta fatta prevalentemente di intercettazioni telefoniche, in cui Carminati, Buzzi, per non parlare dei loro sottopancia, dimostrano una loquacità incredibile e raccontano un sacco di cose che sono però anche dei programmi, dei progetti, forse anche un libro dei sogni.
Uno dei punti a mio giudizio più critici di tutta questa inchiesta sta proprio nel fatto che, oltre alle parole, c’è molto poco. Lo dico perché studiando le carte sono stato molto colpito da un aspetto, se volete marginale, ma rivelatore di una tendenza di fondo.
All’associazione "Mafia Capitale” viene contestata, tra le circostanze aggravanti, la disponibilità di armi. Eppure non hanno sequestrato neanche un bossolo, una pallottola; non c’è una pistola sotto sequestro. Da cosa traggono la disponibilità di armi? Dal fatto che in alcune intercettazioni telefoniche si parla di rapine (quindi si presume che le armi ci siano) e di silenziatori.
Chiusa parentesi. Torniamo alle questioni direttamente attinenti al "discorso sul metodo” nell’inchiesta "Mondo di mezzo”.
Secondo l’accusa, poiché gode di una notevole "fama criminale”, Mafia Capitale non ha quasi mai bisogno di utilizzare la propria forza e in questo, seguendo il ragionamento del Gip, essa assomiglia alle "nuove mafie”, i cui esponenti beneficiano del legame con le consorterie di provenienza. È un parallelo senz’altro suggestivo, anche se non si può fare a meno di notare che nel caso della "esportazione” delle mafie, ci troviamo di fronte a strutture che mantengono un saldo controllo dei loro territori d’origine, mentre nel caso di specie né la Banda della Magliana, né i Nar risultano più esistenti da decenni.
Ci troveremmo quindi di fronte a una "forza di intimidazione” che promana da due organizzazioni criminali ormai disciolte da decenni. Una "forza di intimidazione” che assomiglia molto a una "forza di suggestione”.
Personalmente, ritengo che "Mafia Capitale” sia una entità tipicamente romana.
Con ciò intendo dire che non si tratta di una mafia autoctona che si è sviluppata a Roma, bensì di una tipica forma di manifestazione della criminalità romana.
Non è un mistero per nessuno, infatti, che la criminalità romana si caratterizzi da sempre per alcune attività "tipiche”, tra le quali rientrano senz’altro l’estorsione e l’usura. Questo è quello che faceva il gruppo di Carminati. Mi chiedo dunque: dove sta la differenza con i "cravattari” di Campo de’ Fiori o di Trastevere?
Lo snodo di questa vicenda si ha quando viene eletto Sindaco di Roma Capitale un signore che non ha mai fatto mistero di essere stato, nella sua giovinezza, molto vicino all’ambiente dell’estrema destra eversiva.
Quando un "vecchio amico” diventa Sindaco, la rete di Carminati si attiva, cercando di trarne beneficio. È da qui che nasce quel "Mondo di Mezzo”, che Carminati teorizza, forse dopo aver visto "Il signore degli anelli”, che peraltro è sempre stato un testo fondamentale per la destra italiana, che non a caso organizzava i "Campi Hobbit”.
La questione merita una piccola digressione. Cerco di sintetizzare il pensiero del Cecato sul punto. Lui dice: ci sta il mondo di sopra, la politica, gli affari, gli appalti, il rapporto tra attività economica ed esercizio del potere; e poi ci sta il mondo di sotto: usura, estorsione, criminalità da strada. Mafia Capitale si propone appunto come una cerniera. Mi pare che gran parte dell’ipotesi accusatoria si fondi sulle tesi del principale indagato.
Cerchiamo, invece, di esaminare i fatti.
Al di là delle aspirazioni di Carminati, per ora siamo di fronte a un’associazione per delinquere dedita all’estorsione e all’usura, che aggiunge all’elenco delle proprie attività anche la corruzione e la turbativa d’asta.
Con riferimento alla prima gamma di attività, dobbiamo però considerare un aspetto teorico a mio giudizio dirimente: è particolarmente insidioso individuare con precisione il confine tra un’associazione a delinquere dedita all’estorsione e all’usura e un’associazione di tipo mafioso. Perché che cosa fa chi estorce? Soggioga la propria vittima, utilizza una forza che promana dalla minaccia.
Torniamo al momento del "salto di qualità”.
Con la Giunta Alemanno per Carminati e i suoi si apre un nuovo mercato e, contestualmente, si apre una grave crisi economica.
Come noto, le strutture criminali organizzate hanno sempre grandi risorse liquide da reimpiegare. Carminati decide così di investire nella corruzione.
Ora, c’era sicuramente una componente della banda che sentiva di star facendo il salto di qualità, ma che questo dato arrivi a integrare l’esercizio effettivo di metodo mafioso, a mio giudizio, non è del tutto provato; perlomeno non negli atti che abbiamo potuto leggere fino ad ora.
Un’altra questione: a leggere con attenzione le ordinanze e le sentenze ci rendiamo conto di un aspetto. Entrambi i provvedimenti dicono che un’associazione di tipo mafioso non può nascere ex novo: deve costituire l’evoluzione, la mutazione genetica di un’associazione per delinquere semplice. Secondo il Gip e la Cassazione questo avviene quando Carminati si unisce a Buzzi. Chi è Buzzi? Buzzi era un criminale comune che a un certo punto commette un omicidio per il quale viene condannato a scontare una pena detentiva lunga. In carcere fonda la prima cooperativa di detenuti mai creata in Italia e si propone all’esterno come esempio di detenuto riabilitato, tanto da ottenere la grazia e, una volta uscito di prigione, mettere in piedi una galassia di cooperative sociali, tutte più o meno denominate "29 giugno”, giorno in cui, nel 1984, si tenne a Rebibbia, alla presenza, tra gli altri, del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il primo convegno in carcere sul tema della rieducazione e del reinserimento dei detenuti.
Dunque, anche Buzzi, era un personaggio noto, anche perché dopo che nel 1994 il Presidente Scalfaro gli concesse la grazia, proseguì il suo impegno per i detenuti e gli ex detenuti fondando numerose cooperative sociali.
Nelle carte, la genesi del rapporto tra Buzzi e Carminati non è chiaramente delineata: non si capisce chi dei due avvicina l’altro. Di sicuro i due diventano un tutt’uno al momento del cambio di amministrazione. Alemanno fa un solo mandato, ma ormai Carminati, anche grazie alle coop di Buzzi, è entrato nel sistema, cioè nelle gare per lo smaltimento rifiuti e alcuni lotti di manutenzione dei giardini, oltre alla gestione dei campi per gli immigrati e per i rom. Infatti, questa strana ibridazione tra l’ex Nar e l’uomo vicino al mondo delle Cooperative rosse ha come scopo, da un lato, di continuare a gestire gli affari di strada e, dall’altro, di infiltrarsi nell’amministrazione.
Dunque, a voler seguire pedissequamente l’interpretazione data dallo stesso Carminati, abbiamo un mondo di sopra e un mondo di sotto. Ebbene, la forza di intimidazione viene sistematicamente utilizzata nel mondo di sotto, ma, attenzione, nel mondo di sopra l’associazione di Carminati e Buzzi non ha mai torto un capello a nessuno: si limitava a corrompere. Lo riconosce la stessa Cassazione, quando afferma che era molto più comodo per loro corrompere piuttosto che intimidire.
Se è così, però, abbiamo una scissione tra due elementi che il terzo comma dell’art. 416bis c.p. considera unitariamente.
Se ci troviamo di fronte a una forza di intimidazione che viene utilizzata esclusivamente nel "mondo di sotto”, com’è possibile che essa sia causa della condizione di assoggettamento e omertà che l’ordinanza ritiene sussistere nel "mondo di sopra”?.
In altre parole, non comprendo come sia possibile che un elemento utilizzato in un "settore” del tutto distinto da quello della criminalità politico-amministrativa possa avere l’effetto intimidatorio tipico del metodo mafioso.
Eppure, dice l’ordinanza, vi è stata omertà anche con riferimento ai rapporti con la Pubblica Amministrazione.
Deriva dalla forza di intimidazione del vincolo associativo?
A mio giudizio, se omertà vi è stata, essa deriva dalla corruzione.
Ricordiamoci che non c’è reato che provoca maggior omertà della corruzione. Del resto, il pubblico ufficiale corrotto -lo cita anche un passaggio della sentenza- si sarebbe dovuto denunciare da solo. E non è nemmeno vero che ci fosse una corruzione così penetrante. Parliamo di due ordinanze che hanno colpito, tra mondo di sopra e mondo di sotto, circa ottanta persone in tutto fino ad oggi.
Su quest’ambito fattuale si innestano le considerazioni della Corte di Cassazione, in base alle quali, nell’art. 416bis "non rientrano solo grandi associazioni di mafia dotate di mezzi finanziari imponenti, in grado di assicurare l’omertà attraverso il terrore […] rientrano anche piccole mafie con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone) non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o settore di attività avvalendosi però del metodo di intimidazione”.
Ora possiamo definire "mafia” un’associazione che intimidisce, ad esempio un grande condominio di periferia? Può davvero esistere, nello schema del 416bis, una mafia così?
Se la risposta fosse positiva, viene da pensare che ci troviamo di fronte a un’applicazione molto elastica del 416bis.
In conclusione, un breve riepilogo sulla situazione attuale della criminalità organizzata italiana, per come emerge dal complesso delle inchieste giudiziarie attualmente aperte.
Da un lato abbiamo le mafie storiche, situate in Campania, Sicilia, Calabria, probabilmente anche un po’ di Puglia, che operano nel loro territorio e seguono l’archetipo del 416bis c.p.
Abbiamo poi le mafie etniche, che a seguito della riforma del 2008, rientrano ormai pacificamente nell’ambito del 416bis. Abbiamo inoltre le mafie di esportazione, ossia situazioni nelle quali le mafie tradizionali colonizzano altri territori, avvalendosi della fama criminale che gli deriva dall’essere una "diramazione” della casa madre e avvalendosi della forza di intimidazione che da tale legame deriva. È il caso, tra gli altri, della ‘ndrangheta emiliana, di cui si sta occupando la Dda di Bologna nell’ambito dell’inchiesta Aemilia.
Infine abbiamo queste mafie autoctone, che possono nascere anche solo da tre persone e che si avvalgono della corruzione quale elemento del metodo mafioso, il che, a mio avviso rappresenta una contraddizione.
Mi sia concessa una battuta: crediamo davvero che un’associazione che corrompe sistematicamente, che doveva dare cento euro anche all’usciere del Campidoglio, possa essere così temuta da suscitare "una condizione di assoggettamento e di omertà” di intensità tale da rientrare nel paradigma del 416bis? E comunque la lesione all’ordine pubblico, cioè al bene giuridico tutelato dalla norma, dov’è?
Non è una questione peregrina.
A seguito dell’ultima modifica dell’art. 416bis c.p., entrata in vigore il 14 giugno 2015, la fattispecie punita dal primo comma, cioè la mera partecipazione all’associazione di tipo mafiosa viene oggi punita con la reclusione da 10 a 12 anni, mentre il secondo comma prevede pene che vanno dai 12 ai 18 anni di reclusione.
È ragionevole applicare pene così significative a una piccola "mafia” composta da sole tre persone?
È chiaro che non mi riferisco, con quest’ultima osservazione, all’inchiesta "Mondo di Mezzo”, ma occorre tenere sempre presente che le interpretazioni che derogano al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento sovente prendono vita da casi limite per estendersi rapidamente alla quotidianità delle decisioni giudiziarie.
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