"Fare l’elastico” è la definizione usata in gergo ciclistico per quei corridori che durante la gara si accodano e si sfilano dal gruppo di testa per ragioni tattiche, di opportunità o più semplicemente per sfruttare la scia degli altri e risparmiare preziose energie in vita del rush finale. Lo stesso modo di dire, però, calza a pennello anche per il gruppo dei paesi del Partenariato Orientale a cui sin dagli inizi la Bielorussia si aggancia o si sgancia a seconda della convenienza tattica, politica o economica. Trattato da sempre come un paria dalla diplomazia occidentale,  Alexander Lukashenko, il padre padrone di quella che a torto o ragione viene definita l’ultima dittatura del vecchio continente, tesse e scioglie la ragnatela delle relazioni fra Minsk e Bruxelles in funzione del proprio interesse e del proprio inespugnabile potere nella ricerca di difficili equilibri con la vicina Federazione Russa, con la quale condivide dal 1997 un’unione statale più di forma che di sostanza. Il dossier bielorusso fu uno dei primi che mi capitò fra le mani ai miei esordi in Commissione Esteri del Parlamento europeo. Seguivo, allora, un’europarlamentare tedesca, Elisabeth Schroedter, che era appena stata nominata relatrice dell’Accordo di Partenariato e Cooperazione fra Unione Europea e Bielorussia. Era il 1995 e Lukashenko era da poco salito al potere. Oggi è ancora saldamente in sella e non c’è alcun dubbio che lo rimarrà anche dopo le elezioni presidenziali di ottobre che vincerà trionfalmente per la quinta volta consecutiva. Di quell’accordo quadro, concluso da Bruxelles nel frattempo con tutte le altre ex repubbliche sovietiche del vecchio continente, non se ne fece, ovviamente, nulla. Già da allora, infatti, troppa era la diffidenza maturata in ambito europeo nei confronti di un capo di stato che se ne infischiava e resisteva a qualsiasi apertura sul piano delle riforme democratiche e del rispetto delle libertà fondamentali.
È dal 2002 che la delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con la Bielorussia lavora monca della controparte, da quando si decise di non riconoscere il risultato delle elezioni legislative che videro la vittoria schiacciante del partito di Lukashenko ai danni delle forze democratiche di opposizione. Immediate e insistenti furono le accuse di brogli e falsificazioni confermate dagli osservatori internazionali. Decine da allora sono state le risoluzioni adottate dall’assemblea di Strasburgo sulle violazioni dei diritti umani in Bielorussia senza che a Minsk si battesse ciglio. Sembrava, anzi, vero il contrario: più le istituzioni europee si accanivano nel denunciare le malefatte del dittatore di Minsk, più questi induriva le posizioni intensificando le azioni di repressione in aperta sfida con l’Unione. Dal 2004, poi, dopo il referendum costituzionale che ha spianato a Lukashenko la rielezione ad libitum, a Bruxelles si è deciso di passare alle sanzioni mirate, a congelare i patrimoni nelle banche del continente e a bandire l’ingresso in Europa ai personaggi più compromessi del regime. Anche in questo caso, però, il risultato non è cambiato. A tutt’oggi sono più di 200 le persone che fanno parte della lista nera europea che si allunga e si accorcia come una fisarmonica a seconda del momento politico. Nel 2009, per esempio, con l’avanzare della crisi, c’erano stati timidi segnali di distensione da parte bielorussa con la liberazione di alcuni prigionieri politici nella disperata ricerca di aiuti economici e denaro fresco per rimettere in sesto le casse disastrate dello stato. Poi, l’anno successivo, di nuovo repressione e nuovo giro di vite nei confronti dei dissidenti a seguito delle manifestazioni di protesta organizzate all’indomani delle ennesime elezioni truccate.
Gli echi del Majdan dello scorso anno sono arrivati forti e chiari fino a Minsk. È stata, però, l’annessione russa della Crimea e la guerra nel Donbass a provocare inquietudine tra le file del regime. Gli accordi di pace siglati a febbraio nella capitale bielorussa fra Ucraina, Russia, Francia e Germania hanno rimesso in gioco Lukashenko sul palcoscenico internazionale. Il dittatore evitato da tutti, a eccezione ovviamente di Putin, e isolato dalle diplomazie occidentali, si è trovato al centro dei febbrili negoziati che hanno portato al cessate-il-fuoco fino ad accreditarsi, all’atto della firma del documento davanti alle telecamere e ai flash dei fotografi di tutto il mondo, come colui che ha mediato e ...[continua]

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