Mancano a Sbarbaro sia l’energia vitale e filosofica che porta Michelstaedter all’autonegazione nel suicidio, sia il fuoco e l’ebbrezza della percezione fisica che porta Campana dal reale a un irreale lirico-mitologico prodotto dall’ossessione dell’instabilità e della fuga. Si potrebbe dire che una volta toccato il limite della vita "che non c’è”, della mancanza, del vuoto, Sbarbaro rimanga quietamente in vita a convivere con il suo poco, il suo quasi nulla e i suoi silenzi. Tutte le sue poesie e prose poetiche (frammentarie, elementari, laconiche) ripetono soprattutto un solo tema in un solo tono, fino al punto che tono e tema si identificano e non troviamo quasi altro che disarmate variazioni, oneste e lucide riprese, esemplificazioni, repliche. Nella poesia di Sbarbaro si verifica il paradosso quasi miracoloso di un silenzio che trova parole per esprimersi.
Anche la sua biografia conferma la singolarità di una tale solitudine priva di speranza e di disperazione. Nato a Santa Margherita ligure nel 1888, visse alcuni anni a Genova lavorando come impiegato all’Ilva, ma dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale da soldato semplice di fanteria, visse il resto della vita a Spotorno, dando lezioni private e traducendo dal greco e dal francese (Sofocle, Stendhal, Flaubert, Zola). Il tratto più noto e caratteristico di questa esistenza vissuta "per sottrazione”, è stato il suo appassionato e metodico studio dei licheni, una delle forme di vita vegetale più aderenti, fino alla quasi invisibilità, alla non vita delle rocce. Di licheni diventò uno specialista internazionale, individuando e catalogando, in decenni di ricerche, ben centoventisette specie nuove. Fu lui stesso a osservare che i licheni, avendo un’origine "duale”, fra alghe e funghi, sono un fenomeno di vita conflittuale, una specie di simbiosi autolesiva che nel conflitto ostacola se stessa crescendo con estrema lentezza. Non sembra troppo arbitrario dedurre che la passione di Sbarbaro per i licheni sia stata metaforicamente autobiografica: una passione per le forme di vita più elementari, discrete, ambigue e lente, sul confine fra l’organico e l’inorganico.
Proverbiali e autodefinitori sono anche i titoli delle raccolte di versi e di brevi prose pubblicate con grande parsimonia da Sbarbaro. Cominciò a ventitré anni, nel 1911, con Resine, a cui seguì nel 1914, nelle edizioni della "Voce”, il suo libro più famoso, Pianissimo. Dopo due libretti di prose come Trucioli (1920) e Liquidazione (1928) si spalanca un silenzio ventennale, interrotto solo nel 1948 con la riedizione congiunta delle prose. Poi ancora silenzio. Dal 1960 al 1965 altre prose: Scampoli, Gocce e Contagocce. Nel 1954 tornarono i versi di Pianissimo con l’accostamento della versione originaria e di una riscrittura. Poi i versi di Rimanenze (1956) e Primizie (1958). Finché nel 1961 compare la raccolta di tutte le poesie, escluse le più giovanili.
Gianfranco Contini disse delle prose di Sbarbaro che erano state "forse l’esempio italiano più rigoroso della prosa d’arte frammentistica”, mentre i suoi versi erano stati storicamente importanti come esempio di "poesia discorsiva” in endecasillabi sciolti, da cui Montale fu influenzato fin dagli esordi.
Interessante il fatto che un poeta come Sbarbaro, non solo antiretorico e antivitalistico (assolutamente refrattario tanto a D’Annunzio che all’ermetismo) ma anche passivamente nichilistico, sia stato considerato un maestro (benché "in ombra”, non riconosciuto) perfino da Pasolini. Eppure Sbarbaro, sebbene prosastico e discorsivo, si mostra indifferente alle idee, all’"idealismo militante” e al moralismo ...[continua]
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