La sua poesia ha dunque a che fare con il Novecento solo a condizione di spogliarlo della sua mania per l’autosuperamento. È una poesia che non nasce da una teoria estetica. Nasce piuttosto da due amori: l’amore per la lingua comunemente parlata e l’amore per la poesia del passato, una tradizione di classici maggiori e minori la cui musica permette di "cantare” parlando. Saba in effetti e con ogni evidenza canta parlando, senza mai credere che il linguaggio della poesia possa o debba essere solo musica, solo fascinazione sonora e audacia metaforica. Nella poesia di Saba le metafore sono quasi assenti. Si può avere l’impressione che la pacata e variata distensione descrittiva e colloquiale dei suoi versi sia resa necessaria dalla rinuncia alle contrazioni metaforiche, all’avversione per le metafore. Come si è visto subito con la giovanile poesia A mia moglie, Saba ha invece una predilezione, un po’ classica e un po’ infantile, per le similitudini: sei lunghe strofe che iniziano tutte con un "Tu sei come”.
Essendo "poeta di tutta la vita” (secondo la definizione di Elsa Morante), Saba non seleziona né sorvola sui fatti e sulle emozioni della vita, non filtra, non esclude osservazioni, aneddoti e casi: dispone perciò di un’abbondante materia su cui lavorare poeticamente. Pasolini scrisse nel 1954 che "Saba è il più difficile dei poeti contemporanei” proprio perché inganna con la sua "facilità di lettura”, una colpa per la quale l’oscurità ermetica "per un trentennio lo ha isolato, umiliandolo”: così, in quanto triestino, "Saba ha patito per anni l’ingiustizia di essere considerato da molti suoi coetanei e da molti giovani delle generazioni seguenti, formatisi in città più centrali dove l’ultima poetica era necessaria e naturale, come un poeta anacronistico”. In realtà, continua Pasolini, "questa sua facilità era solo apparente: quando al più semplice esame linguistico non c’è parola in Saba -la più comune, il ‘cuore-amore’ della rima famosa- che non risulti intimamente violentata, o almeno (…) malconcia e strappata al suo abituale significato”.
Se si esclude il termine "violentata”, più tematico in Pasolini che in Saba, queste osservazioni rendono giustizia all’originalità di una tecnica che sorprende il lettore con un’oltranza dichiarativa che, escludendo la reticenza, scandalizza il lettore letterato, soprattutto se abituato agli stili allusivi, indiretti, criptici.
Fu Giacomo Debenedetti ad aprire la strada alla poesia di Saba già nel 1923, all’inizio cioè della propria carriera di critico, quando aveva appena 22 anni. Viene voglia di vedere in che modo lo stesso critico riprese il discorso nel 1945-46, nel momento in cui Saba, come mai prima, rappresentò agli occhi di tutti l’alternativa maggiore e più longeva all’ermetismo e più in generale al lirismo variamente tardo-simbolista.
Nel suo Ritrattino del ’45 Debenedetti evoca la presenza di un nuovo pubblico per Saba, un pubblico "che lo riconosce ormai senza discussione come uno dei maggiori poeti viventi”, e descrive poi il suo modo di leggere i propri versi con quel "nonnulla di declamato” e con "la sostenutezza e nobiltà di tono, la qualità di un linguaggio un poco più su del comune”. Mentre "l’espressione e l’affettività della lettura riportano al secolo scorso, l’arte invece è di qua e insieme di là della crisi della poesia moderna, e questo è proprio il suo fascinoso segreto, la sua sconcertante maniera di essere attuale”.
Qui naturalmente la novità rivelata senza ritegno da Debenedetti è nell’affermazione più forte, la più adeguata all’anno 1945: è nel dire che lo stile di Saba può essere considerato ormai "di là della crisi della poesia moderna”. La modernità, o un certo tipo di modernità divenuta precedentemente canonica, viene giudicata esaurita, cosa più evidente a tutti dopo la seconda guerra mondiale. Debenedetti torna di nuovo su quel punto dolente che è la singolarità storica di Saba, fonte di tanti malintesi ...[continua]
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