Soprattutto con il secondo e il terzo dei suoi libri, Le occasioni del 1939 e La bufera del 1956, Montale è stato anche uno dei poeti più ardui, allusivi, oscuri della nostra letteratura. Un espressionista introverso, un oggettivista allegorico, un razionalista privo di certezze razionali, un osservatore realistico e concreto che non crede nei poteri risolutivi della ragione e costantemente constata che la realtà ci si presenta come una pluralità di presenze tanto evidenti quanto enigmatiche: un ipotetico sistema fatto però di emergenze e occultamenti, di apparizioni e cancellazioni, o dubbie apparenze, o rivelazioni tanto auratiche quanto effimere.
A questa instabilità e complessità gnoseologica dell’esperienza montaliana corrisponde un linguaggio energicamente, nitidamente espressivo, nemico delle astrazioni e delle dichiarazioni sentimentali. Uno stile condensato e composito, lessicalmente sorprendente e metricamente scolpito su una materia dura. La fluidità ritmica e una precisione percettiva focalizzata fino al parossismo danno alla sua poesia una leggibilità che non ha niente a che fare con la comprensibilità immediata. La poesia di Montale è scritta per essere riletta più che letta. Resiste al lettore nel momento stesso e con gli stessi mezzi con cui lo attrae e lo impegna. Ne fissa l’attenzione costringendolo alla perplessità, allo stupore, al dubbio sulla stabilità, consistenza e significato dell’esperienza. In questo senso Montale può essere considerato, o meglio certamente è stato, con Ungaretti e molto diversamente da lui (senza dimenticare Arturo Onofri e Dino Campana), un maestro dell’ermetismo. Ma dire, ripetere questo significa ricordare che se la poetica dell’ermetismo è una derivazione, un ramo del tardo simbolismo, con qualche contaminazione malintesamente surrealista, Ungaretti e Montale sono autori il cui stile "ermetico” diverge così radicalmente perché è altrettanto radicale la differenza fra i loro modi di esperire e percepire: due stili che presuppongono o proiettano due diverse filosofie implicite, sia empiriche che metafisiche. Volendo usare una formula sbrigativa, si potrebbe dire che il mondo di Ungaretti è distribuito e rarefatto in frammenti che irradiano, si dilatano, si liberano in un indicibile infinità ("M’illumino / d’immenso”), mentre in Montale l’estrema condensazione della materia impone l’evidenza di un limite che esclude l’indicibile e costringe a un’attenzione che non concede evasioni. In Ungaretti la libertà poetica è esaltata. In Montale è controllata, circostanziata, limitata fino a sembrare, in linea di principio, negata. In Ungaretti il poeta è un soggetto libero, in Montale è un individuo che vive in stato e condizioni di necessità.
Questa necessità trova la sua prima giustificazione e illustrazione obiettiva nel paesaggio, nella geografia, nella cogente ambientazione fisica della poesia di Montale. Lo spiegano molto in breve queste righe di Fortini: "Gli archetipi della poesia di Montale sono nei più severi paesaggi della costa ligure; scoglio e mare, dunque ascesi e tenacia. L’uomo può aver amato sempre gli aromi dell’umanesimo altoborghese; ma il poeta ha corretta la propria formazione intellettuale, di origini spiritualistiche e positivistiche e scarsa del senso della storia, con la lezione della sua giovanile geografia: astensione, riserbo, separazione”.
La lezione di questa geografia la si legge in Ossi di seppia, libro con cui Montale esordisce nel 1925 nelle edizioni gobettiane del "Baretti” (edizione ampliata tre anni dopo nelle edizioni Ribet, sempre torinesi). Vale la pena di rileggere la prima, la più precoce delle poesie incluse nel libro, scritta quando l’autore aveva vent’anni:
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi,
schiocchi di merli frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si l ...[continua]
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