C’è un altro aspetto, però, di cui si parla poco o nulla, ma che sta subdolamente per i più (ma in maniera assai evidente per gli addetti ai lavori) modificando in profondità l’esercizio del Diritto del Lavoro in sede giurisdizionale, vale a dire il suo costo economico. Gli avvocati giuslavoristi e gli uffici vertenze sindacali se ne sono resi ben conto: da una parte il prezzo vivo della cause di lavoro, a seguito dell’introduzione del Contributo Unificato, e dall’altra, soprattutto, l’aumento del rischio di pagare le spese di soccombenza (la condanna alle spese legali) stanno deflazionando i processi del lavoro. Chi ritiene di potersi rivolgere al giudice per vedere stabilito se possiede o meno un certo diritto deve porsi il problema del rischio non solo di perdere la causa (e questo ci può stare), bensì in ragione di ciò di dover corrispondere copiose rifusioni di spese alla controparte.
Un esempio può far capire meglio la questione: per una causa di valore tra 5.200 e 26.000 euro, l’importo medio del suo costo legale (quello che viene normalmente applicato in caso di soccombenza e che deve essere corrisposto alla controparte) è pari a 5.131 euro, a cui aggiungere Iva (22%), cassa previdenza avvocati (4%) e rimborso spese forfettarie (15%). Oltre a ciò l’interessato dovrà pagare altresì il proprio legale.
Potrà sembrare giusto il principio sulla carta, cioè che chi perde paga, se non si dovesse considerare che nel processo del lavoro il rapporto tra le parti in causa è quasi sempre sproporzionato per quanto riguarda la potenza economica reciproca, poiché tra datore di lavoro e lavoratore normalmente quest’ultimo è considerato il contraente debole dell’obbligazione negoziale e di conseguenza meritevole storicamente di una protezione particolare anche ai fini dell’accesso alla Giustizia: il che si palesa evidente se si considera che è il datore di lavoro che normalmente determina unilateralmente termini, contenuto e modalità dell’adempimento.
Si consideri infine che il trattamento fiscale delle spese legali e processuali è comunque diverso tra individuo e azienda (di persone o meno), poiché quest’ultima potrà sempre porle quale costo aziendale e quindi averne comunque un beneficio fiscale negato in radice al lavoratore.
Ebbene, la norma sui criteri di liquidazione delle spese (artt. 91 e 92 codice di procedura civile) negli ultimi anni aveva già subìto diverse modifiche che andavano nella direzione di restringere il potere discrezionale del magistrato di compensarle (il che significa che ogni parte in causa si assume le proprie): fino al 2006 ciò poteva avvenire per "giusti motivi”, motivi che, dopo la legge n. 51 del 2006, dovevano essere "esplicitamente indicati nella motivazione”. Un’ulteriore restrizione aveva avuto luogo con l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009: questa aveva imposto un più stringente obbligo motivazionale, riferito all’ipotesi di "gravi ed eccezionali ragioni”, senza però spingersi fino a specificare in quali casi le stesse potessero ravvisarsi. È evidente come in tale intervento fosse ancor più palese l’intento deflattivo del contenzioso, visto che la formula "gravi ed eccezionali ragioni” avrebbe dovuto comportare una forte compressione della possibilità di compensare le spese. Secondo alcuni commentatori, infatti, il fatto che la nuova disposizione richiedesse contestualmente s ...[continua]
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