Dato questo clima, l’idea di organizzare un viaggio nel Medio Oriente non è stata cattiva. I media nazionali hanno sicuramente tirato un sospiro di sollievo: gli analisti politici si sono potuti concedere una pausa da questi argomenti deprimenti per raccontare invece dell’accoglienza in Arabia Saudita, della tradizionale danza delle spade, della decisione di Melania di non indossare il velo (una supposta violazione dell’etichetta per cui Trump, quand’era candidato alla Casa Bianca, aveva messo in croce Michelle Obama, all’epoca First Lady).
I commentatori si sono potuti divertire con le nuove battute sull’improvviso interessamento del Presidente all’Islam, sui suoi piani, mentre si trovava in Israele, di visitare Masada in elicottero, e sul suo auspicio di trascorrere quindici minuti a Yad Vashem per apprendere qualcosa sull’Olocausto.
Mentre queste storie saturavano l’etere le questioni importanti venivano comunque spinte lontano dai riflettori. Si è parlato poco della improvvida inversione di rotta della politica di Trump per il Medio Oriente. Si sarà anche parlato di alcuni aspetti precisi, ma non di come il tutto, ora, minacci di diventare più della somma delle sue parti.
Persistono seri dubbi sul fatto se esista o meno una strategia complessiva o se, piuttosto, il presidente non stia semplicemente reagendo a singoli eventi in maniera casuale ed emotiva (come nella recente decisione di bombardare la Siria, presa dopo aver visto raccontare alcune delle atrocità di Assad nel telegiornale della sera).
Non c’è dubbio che l’accordo sulla vendita di armi per 110 miliardi di dollari all’Arabia Saudita sia la pietra angolare della politica di Trump sul Medio Oriente. A quanto pare, avrebbe deciso di distinguere tra gli arabi "buoni” (che si allineano agli Stati Uniti) e gli estremisti "cattivi” (come Al-Qaeda e Isis). E questo va bene, o quasi.
Rimangono alcuni minuscoli (!) problemi che meritano considerazione. Il più ovvio di questi è che, proprio quando la campagna elettorale per la presidenza di Trump aveva messo in prima linea la lotta al terrorismo islamico, potenti sette come gli Wahabiti dell’Arabia Saudita sponsorizzavano Al-Qaeda e le organizzazioni da essa gemmate, al-Nusra in Siria e Isis in Iraq. Proprio come l’Arabia Saudita, queste organizzazioni sono esclusivamente sunnite e, per quanto gli estremisti spesso se la prendano con i correligionari più moderati, i loro principali nemici restano le milizie sciite in Iraq, i ribelli sciiti in Yemen, lo stato sciita dell’Iran, e il governo sciita alawita del presidente Bashar al-Assad in Siria. E proprio perché Trump ha esplicitamente dichiarato che le armi vendute all’Arabia Saudita serviranno a quest’ultima per contrastare "la malvagia influenza iraniana”, sembra si possa tranquillamente affermare che deporre Assad sia diventata la priorità strategica per combattere l’Isis.
C’è di più: l’Arabia Saudita, non c’è dubbio, userà i 110 miliardi di armi acquistate per sostenere un’offensiva transnazionale già in corso contro forze sciite che hanno, nel bene e nel male, giocato un ruolo-guida nella lotta al terrorismo. Dichiarare che il bianco è nero e che il nero è bianco, però, richiede una spiegazione. Certo, è facile prevedere che i media destrorsi degli Stati Uniti lavoreranno per demonizzare l’Iran e farlo apparire come la fonte dell’estremismo islamico. Vale la pena ricordare che questa è la stessa tattica che fu impiegata contro il regime secolarizzato di Saddam Hussein, dipinto come alleato di Al-Qaeda (e ora possiamo ammirare i bei frutti di que ...[continua]
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