È come se in Sereni l’uomo comune che vive le sue grigie e comuni esperienze, fosse visitato da uno slancio e da un surriscaldamento emotivo e immaginativo a sua insaputa, senza intenzione, fuori tempo, spesso, e al di là di ogni previsione. Il grigiore e la compressione delle esperienze (prigionia durante la guerra, lavoro di insegnante e poi di funzionario editoriale) vengono lacerate da soprassalti morali e visionari, attese e nostalgie di una vita più degna di essere vissuta, evasioni inquiete, impazienti, velleitarie, che si intromettono come "visitazioni” mentali che "salvano l’onore”, almeno a intermittenze, di chi si sente, con vergogna, sconfitto, umiliato, inadeguato.
È questo il lato "crepuscolare” di Sereni, che dà senso alla sua scelta giovanile di laurearsi con una tesi su Guido Gozzano, il maggiore dei crepuscolari, e che è presente già nel suo primo libro di versi, Frontiera.
Così in Sereni il sentimento della propria marginalità, irrilevanza, ineffettualità e incompiutezza, sia nella vita pubblica che in quella privata, fa di lui l’emblema di una generale, generazionale sconfitta. Il suo nucleo letterario è concentrato in questa onesta esperienza morale, preletteraria, non letteraria, che evidentemente ha permesso ai suoi lettori e soprattutto a diversi poeti più giovani di rispecchiarsi, altrettanto onestamente, in lui.
Un destino storico e collettivo fatto di frustrazioni e di quasi clandestine evasioni viene nello stesso tempo abbassato e sublimato da una coscienza morale che si manifesta, a sprazzi, in forma di poesia. Se Sereni ha scritto poco è perché sentiva di non meritare la poesia e di non meritare neppure di essere, o di essere considerato, davvero e pienamente poeta. A pochissimi altri poeti sarebbe venuta in mente una cosa simile, un simile rimorso. Certo non ai più giovani (e da lui diversissimi) Pasolini e Zanzotto, poeti inflessibilmente, ossessivamente tali, espansi e produttivi in senso sia coattivamente morboso che professionale. In Sereni (come ha detto lui stesso di sé) l’impulso a scrivere esprime anzitutto una "fedeltà al tempo e alle esperienze vissute”: cosa che vale certamente (per restare ai suoi coetanei) sia per Attilio Bertolucci sia per Giorgio Caproni, ma molto meno per Luzi: anche lui, come Zanzotto e Pasolini, poeta totale e in servizio permanente, poeti protetti e viziati dai "favori della Musa”, a cui danno e da cui ricevono la più piena, ininterrotta, materna fiducia.
Sereni invece quando scrive non è mai sicuro di sé. Appare sempre come stentato, leggermente forzato, in difficoltà espressiva, in lotta con parole, frasi e versi, a disagio con se stesso proprio nel momento in cui la felicità o la semplice possibilità di esprimersi gli viene concessa dal caso, dalla grazia della cosiddetta ispirazione, un raptus momentaneo. Leggerlo è avvertire subito l’instabilità e il disagio di colui che scrive. Sereni sembra che stia scrivendo e cercando di scrivere proprio nel momento in cui lo si legge, cosa che fa somigliare i suoi testi a una performance in atto, più improvvisata che premeditata. Perciò la sua lingua letteraria è un misto di semplice lingua comunemente parlata e di reminiscenze letterarie nobilitanti e intensificanti, sia per passione che per ironia.
Tutte le poesie di Sereni sono abitate da vuoti improvvisi compensati da certe iterazioni e insistenze, o svolte repentine dell’ordine sintattico, dolorose fitte di rimorso, improvvise vertigini emotive tra memoria e premonizione. La sua maturità precoce di soldato in guerra, di italiano sconfitto, di prigioniero in Algeria, n ...[continua]
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