Bertolucci non ha certo raccontato bugie quando ha parlato del suo cuore che soffre (o gode?) di aritmie. Il suo ritmo, i suoi ritmi vitali sono anomali, non somigliano a quelli degli altri. E lui, come uomo e come poeta, deve tenerne sempre conto, deve ubbidire con scrupolosa attenzione a questa fastidiosa (o provvidenziale) e non troppo preoccupante cardiopatia. Per rendere "tematica” questa faccenda, per indicarne la parentela stretta con la sua musa letteraria, Bertolucci ha intitolato proprio Aritmie una sua raccolta di prose, articoli e saggi uscita nel 1991, libro non secondario, anzi uno dei suoi migliori. Bertolucci in prosa è "diversamente poeta” e fa parte di quella famiglia di poeti (Saba, Montale, Caproni, Zanzotto, Pasolini) che nel Novecento hanno portato la prosa non narrativa italiana ai più alti livelli di qualità.
Se si escludono le sue raccolte poetiche giovanili, Sirio (1929) e Fuochi in novembre (1934), anche l’opera in versi di Bertolucci ha un andamento prosastico: conserva nei versi il fascino della rievocazione narrativa, della rimemorazione o divagazione diaristica. Non è proprio un caso se Bertolucci ha scelto di tradurre in prosa e non in versi Les Fleurs du Mal di Baudelaire, con sollievo e speciale piacere dei lettori che così non devono mai incappare nei troppo numerosi versi brutti o falsi di altri traduttori.
Volevo parlare di date e ancora non l’ho fatto, mettendomi a spiegare il perché. Le date che colpiscono di più in Bertolucci sono quella in cui esordisce, pubblicando Sirio nel 1929 a soli diciotto anni, con una precocità e sicurezza che sorprendono, e poi l’intervallo tra il suo secondo e il suo terzo libro: si passa dal 1934 di Fuochi in novembre al 1951 della Capanna indiana. Un silenzio editoriale di ben diciassette anni che tuttavia non ha l’apparenza né la sostanza di una lunga crisi di afasia.
Si direbbe che Bertolucci non perda mai la sua naturalezza e che, come la natura, non facit saltus. Pare che il concetto sia stato formulato così dal naturalista settecentesco Linneo nella sua "filosofia botanica”. Il continuum biografico, psicologico e letterario di Bertolucci non ha interruzioni né vere svolte. Nella sua opera vige un’organicità di sviluppi e di riprese che stupisce e, direi, conforta. La sua poesia ha un suo luogo, un suo sicuro habitat e la fedeltà di Bertolucci alla propria localizzazione e alla propria temporalità è insieme eroica e spontanea. Bertolucci è sempre andato controcorrente senza nemmeno accorgersene. Era semplicemente altrove, nel proprio luogo. In lui l’Ermetismo e altre poetiche o scuole non hanno lasciato traccia. Il suo stile possiede una capacità di resistenza flessibile ma tenace, quasi "botanica”, alle ideologie letterarie.
Nella sua recensione a Fuochi in novembre, Montale scrisse che "il Bertolucci ha quel che si dice un temperamento; ha vena, fantasia e respiro. Forse non crede troppo a quel che fa: compromette perciò qualche risultato, perché in poesia bisogna credere molto; ma ha il grande vantaggio di non svolgere mai nessun programma”.
Qui Montale coglie perfettamente il punto: temperamento, respiro e assenza di intenzione programmatica, di idee sulla poesia che la poesia dovrebbe incaricarsi di illustrare. Eppure proprio Montale, nonostante il suo notorio scetticismo, scopre un suo punto debole quando parla di fede nella poesia, della necessità di "credere molto”. Bertolucci non crede, non ne ha bisogno. Per lui la poesia non vive di fede estetica ma di esperienza personale e biografica allo stato puro. Un tale poeta non poteva che essere del tutto estraneo a quella fede in una certa idea di poesia che l’Ermetismo richiedeva.
Vediamo ora che cosa succede nel passaggio da Fuochi in novembre del 1934 a La capanna indiana del 1951. Le poesie più citate del primo libro sono queste:
A Bologna, alla Fontanina,
un cameriere furbo e liso
senza parlare, con un sorriso
aprì per noi una porticina.
La stanza vuota e assolata dava
su un canale
per ...[continua]
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