Quest’anno, nel ricorrere dei 50 anni della guerra del ‘67 e dell’inizio dell’occupazione, vi era un’urgenza particolare: essere, in quanto ebrei della Diaspora europea, vicini agli animatori della campagna Siso (Save Israel, stop the occupation), promossa dall’Appello di 500 israeliani agli ebrei del mondo1 in una comune battaglia delle idee che ispira la nostra azione nelle comunità ebraiche, nonché nelle opinioni pubbliche e nei rapporti con i governi dei nostri paesi.
Due stati, ancora possibile ?
Un sabato sera a Tel Aviv incontriamo A.B. Yehoshua, sempre arguto, bonariamente polemico e irriverente. Ci ripete quanto già espresso in recenti interviste: la presenza di circa 600.000 israeliani fra Gerusalemme est e la Cisgiordania, la stessa topografia degli insediamenti così intrecciata con le località palestinesi, gli ostacoli enormi allo sgombero delle colonie, il timore di una quasi "guerra civile” che scuota e sconvolga Israele rendono molto difficile la spartizione della terra contesa come voluto dal paradigma "a due stati” che domina la scena politica dagli anni Ottanta e soprattutto dagli anni Novanta con gli accordi di Oslo. Come soluzione forse transitoria occorre alleviare le condizioni di oppressione dei circa 100.000 palestinesi abitanti nella Area C -circa il 60% della Cisgiordania, sotto il controllo pieno di Israele- e degli oltre 300.000 residenti arabi di Gerusalemme est accordando loro diritti di cittadinanza.
Altri sostengono che, pur nel rispetto del principio di "due stati sovrani per due popoli” lungo i confini pre-67, il paradigma, dominante negli ultimi 20-30 anni, della separazione fra israeliani e palestinesi contraddice geografia dei luoghi e demografia -che vedono le due popolazioni frammiste sullo stesso territorio- nonché il legame affettivo-spirituale di ambedue i popoli con la terra. Propongono quindi di passare a un modello "confederale” in cui israeliani e palestinesi, pur rispettivamente cittadini dei loro stati ed elettori dei propri Parlamenti, godano di libertà di movimento e di residenza in un’unica "patria” comune. È un’ipotesi seduttiva, stretta fra il realismo dei fatti sul campo che spingono verso un esito del genere e l’utopia del ritenere che i coloni siano disposti ad alterare drasticamente il loro stile di vita, aprendo le loro comunità, accettando di essere soggetti alla sovranità palestinese, senza la protezione dell’esercito e d’altra parte che gli israeliani accettino l’ingresso ancorché graduale di rifugiati palestinesi sul territorio di Israele2.
Insomma, l’interrogativo preminente per la possibilità dei "due stati” riguarda i coloni e il loro atteggiamento. Gli assertori più coerenti dei due stati, dagli accordi di Ginevra del 2003 alle trattative fra Olmert e Abu Mazen fino alla mediazione appassionata di Kerry del 2014, insistono sul fatto che circa metà dei 120 insediamenti sono piccoli e remoti (in totale circa 30.000 abitanti), in altri 50 risiedono circa 100.000 coloni. Restano 15 insediamenti, detti, nel linguaggio degli addetti ai lavori "settlement blocs”, in un triangolo compreso fra Modiin Illit a nord di Gerusalemme, Maale Adumim a est e Gush Etzion a sud, dove risiedono oltre 400.000 israeliani (l’80 per cento di coloro che vivono oltre la Linea verde pre-67). La superficie di questi occupa circa il 4% della Cisgiordania e uno scambio paritario in cui Israele cederebbe i suoi territori vicini alla striscia di Gaza o nel sud vicino al Mar Morto consentirebbe di incorporare quell’80%, e di evacuare gli altri 130.000 con il favore di adeguati indennizzi economici.
Una posizione affine è avanzata da Commanders for Israel’s security, un’associazione di ex generali dell’esercito, Mossad e Shabak; Michel Maayan, ex alto dirigente del Mossad3 ce ne ha parlato. Riconoscendo che un accordo di pace non è oggi possibile per la debolezza e le divisioni in seno al mondo palestinese, il settarismo ideologico di Hamas, la frantumazione degli stati nel Medio Oriente, essi ritengono che sia necessaria una fase transitoria che garantisca la sicurezza di Israele e consenta l’affermarsi nel tempo di un clima di fiducia che prepari un accordo di pace. L’annessione fra il 3 e il 4% della Cisgiordania con scambio di territori, il ritiro dell’esercito e lo sgombero dei circa 130.000 coloni saranno rinviati al momento in cui si giungerà a quell’accordo. Ne ...[continua]
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