Nel saggio di Fortini Le poesie italiane di questi anni, uscito nel 1959 sul n. 2 della rivista "Il Menabò” di Vittorini e Calvino, si legge uno dei ritratti critici più acuminati e tempestivi dell’autore delle Ceneri di Gramsci. Dopo aver segnalato la distanza che separa la cultura letteraria di Pasolini da quella "postmontaliana” di Mario Luzi e Vittorio Sereni, da Fortini viene indicata nella contraddizione e nell’antitesi la caratteristica centrale di questo nuovo tipo di poesia:
"Il pluralismo linguistico e la contaminazione stilistica sono gli strumenti espressivi ‘antiascetici’ di Pasolini (...) Quando si dice di un Pasolini che ‘può far di tutto’ (un dramma in versi, una traduzione dell’Eneide, una collana di sonetti o un romanzo epistolare) intendendo che può far di tutto a un alto o altissimo livello letterario, si vuol dire evidentemente che egli può darci una sola cosa, un solo sentimento fondamentale dell’esistenza, quello dell’ubiquità e della duplicità polare”.
Naturalmente sembra sottinteso che usando una pluralità di forme e di generi letterari si potrebbe fare anche il contrario: adoperarli per uscire da un solo punto di vista e da un solo "sentimento fondamentale dell’esistenza”. Ma Pasolini è incapace di superare l’autobiografismo. Quello di Fortini è cioè un modo per dire indirettamente che il realismo sperimentale di Pasolini è un’apparenza, poiché incapace di percepire l’effettiva, irriducibile, reale varietà del mondo oggettivo. Quella di Fortini è in sostanza una critica morale e politica più che un rilievo psico-stilistico: "La miscela detonante di Pasolini consiste nell’aver scelto -soprattutto nelle Ceneri- le apparenze della ‘comunicazione’, proprie del poemetto raziocinante, didascalico, filosofico ed esortativo di tradizione ottocentesca (da Wordsworth a Hugo, da Vigny a Pascoli), per esprimervi tutt’altra verità stilistica e sentimentale; e nell’aver impiegate tutte le risorse espressive della poesia moderna su contenuti ideologici ormai acquisiti della nuova borghesia italiana. Di qui la ‘democraticità’ apparente di quella poesia e la sua apparente carica ‘rivoluzionaria’”.
Ma se Pasolini è riuscito a realizzare questa apparenza è perché non riusciva ad ammettere che in poesia non si potesse toccare, coinvolgere un più ampio pubblico di lettori e su una più ampia, tendenzialmente illimitata, gamma tematica. Parlare di tutto in versi era il suo istinto. Era però anche la sua scorciatoia. Il genere poesia permette infatti una sinteticità, una velocità di accostamenti ...[continua]
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