Trump identifica come "sovranità” il diritto delle nazioni di privilegiare i propri interessi e di promuovere i propri affari. Questa nuova enfasi contrasta con la politica estera del Presidente Barack Obama, ritenuta meno "muscolare”. Qui si privilegia l’azione unilaterale su quella multilaterale; la coercizione sulla diplomazia; l’arbitraria determinazione dell’interesse nazionale americano sulla cooperazione internazionale; e una cruda, tradizionalista, "politica di potenza” applicata al tema dei diritti umani.
Per comprendere il discorso di Trump, e perché sia pericoloso, dobbiamo guardare alla storia del concetto di sovranità.
Di sovranità e raison d’etat si comincia a parlare dopo la Guerra dei Cent’anni (1337-1453), la Guerra dei Trent’anni (1455-1487) e una miriade di altre guerre verificatesi tra queste. Stanchi del bagno di sangue, insofferenti dell’assolutismo religioso, la sovranità secolarizzata viene vista dalle nazioni come uno strumento, prima di tutto, per ricercare una stabilità. Questo porta a contrastare le aspirazioni egemoniche di un singolo stato decentralizzando il potere internazionale, forgiando alleanze favorevoli (anche con gli avversari) e rimanendo guardinghi circa i nuovi stati che entrano, mutando la costellazione esistente delle forze politiche.
Il concetto si sviluppa insieme a una rivalutazione dell’"equilibrio di potenza”, principio su cui si fonda il diritto internazionale, e con l’estensione ad altri stati sovrani di una reciprocità formale nella scelta di forme di governo e religione.
In questo sistema, le iniziative che invocano un isolazionismo assoluto -che potrebbero comportare un’erosione del potere di influenza- sono tanto pericolose quanto quelle che giustificano un intervento impulsivo negli affari di altri stati. C’è la sensazione che le une giochino contro le altre. L’idea che lo stato "sia solo”, che "gli si manchi di rispetto”, che sia "sotto assedio”, aumenta il richiamo della paranoia, della xenofobia, di scelte politiche imprevedibili, e la probabilità di una guerra. La distinzione tra "amico” e "nemico” si fa labile, e cambia con tanta rapidità che cominciano a entrare in gioco considerazioni puramente strumentali. Ciascuno stato può diventare "nemico” o "amico” in qualunque momento, e non solo in principio, ma di fatto. La strategia si trasforma nella tattica; la conseguenza è un’incapacità di formulare una qualsivoglia scelta politica fondata o coerente. È precisamente questa la situazione in cui ora si ritrovano gli Stati Uniti; la sovranità è stata spogliata del suo legame con l’equilibrio di potenza, con il riconoscimento reciproco fra stati, con il rispetto del diritto internazionale e, forse più di tutti, con la stabilità.
Il Presidente Trump ha fatto notare più e più volte, sia implicitamente che esplicitamente, che gli Stati Uniti sono isolati, e che hanno rinunciato a qualunque possibilità di esercitare il proprio potere. Questo atteggiamento ha prodotto una profezia che si autoavvera: la mancanza di fiducia dell’America nei confronti della comunità globale ha portato a una crescente sfiducia negli Stati Uniti, andando così a fomentare paranoia e xenofobia, e contemporaneamente una serie di decisioni arbitrarie in politica estera. I legami con alleati storici si sono indeboliti, mentre le (semi-nascoste) collaborazioni con regimi autoritari e reazionari come la Russia e l’Arabia Saudita vengono date per scontate; c’è la prospettiva di un attacco militare/nucleare su due fronti, quello dell’Iran e quello della Corea del Nord, e la capacità di influenzare gli eventi globali è diminuita, a seguito dell’abbandono statunitense degli accordi sul clima di Parigi, dell’Organizzazione mondiale del Lavoro e dell’Unesco. Il deputato Mike Rogers (repubblicano dell’Alabama), è bene ricordarlo, ha chiesto che si intraprendesse la logica azione conseguente, e cioè sostenere l’Am ...[continua]
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