Eppure, nonostante il ramificato sperimentare diversi livelli e modi stilistici, il personaggio autobiografico inventato da Giudici non smette mai di entrare di nuovo in scena. È il suo doppio teatralizzato, è uno strumento espressivo e narrativo senza il quale la poesia di Giudici perderebbe la sua consistenza circostanziale. Questo personaggio poetico di Giudici (come è stato detto e ripetuto) ha precedenti nella poesia italiana sia in Gozzano che in Saba, ma fa pensare piuttosto a quello che Zeno era stato per Italo Svevo. È il nuovo piccoloborghese che si vergogna sempre di sé, che si maschera e si traveste vergognandosi anche dei suoi travestimenti e delle sue maschere. Nella poesia italiana della seconda metà del Novecento non si trova niente di simile.
Per questo, forse, Giudici ha entusiasmato poco i lettori di poesia che cercano nella poesia la poesia e nel poeta il poeta. Come quella che Saba voleva all’inizio del Novecento, perché gli sembrava che mancasse, quella di Giudici è una "poesia onesta”. Non trascende, non trasvaluta i fatti. La sua narratività non significa soltanto racconto, registra piuttosto l’impossibilità di superare l’autocoscienza sociale per via immaginativa. L’immaginazione di Giudici è al servizio della fedeltà descrittiva, anche quando la cosa descritta è uno stato di coscienza al limite del dicibile, quando la coscienza si dilata o si contrae sfuggendo a se stessa e sconfinando in una iperpercettività nella quale ogni qui e ora si fonde per un momento con un altrove, un allora e forse un mai: tempi e luoghi che non si sa più se passati o mai esistiti o semplicemente intuiti. Le poesie d’amore, o meglio il tema dell’amore, nella sua fisicità, diventa il veicolo di esperienze mentali regressive, cullanti, misteriosamente visionarie. Nel Ristorante dei morti (1981) compare per esempio, in forma di preghiera, l’annuncio di un mondo oltre i confini del mondo:
Abbia il Signore clemenza dei nostri corpi, li unisca
In nome dell’ignoranza, della reciproca
Volontà di conoscersi, del pensiero:
Infanti in viaggio verso un luogo senza nome
(Alba)
Questi versi così espliciti sembrano un prologo didascalico al testo che chiude, nello stesso libro, la sezione "Pascoli”: otto quartine magistralmente giocate fra rime e alternanza di novenari, ottonari e settenari. Siamo già al limite estremo, che in precario, momentaneo equilibrio, riaffiorerà sempre più spesso in tutti i libri successivi di Giudici, da Salutz (1986) a Empie stelle (1996) ed Eresia della sera (1999).
Melancolia dell’intelletto
Su e giù per la prigione
Nome scavato del suo oggetto
Cosa che sta senza il nome
Luce spiccata già
Che gli occhi mai non sapranno
Pane che indorerà
I forni del remoto anno
E più non ci avrà questo luogo
Dove aspettammo il vano segno
Fissi sul quadro appeso al chiodo
Da quel telefono di legno
Noi che improvvisa visitò
La nuvola del tuo odore
Quando sparita ti frugava
Il piccolo cane amore
O che ci apparve muto suono
Fermo nel puro movimento
Marciante uomo dietro uomo
Il misterioso reggimento
Però non erano risorti
Sfioravano appena la via
Dondolavano lievi e morti
Avanzi di fanteria
Mirabilia della vista
Che si sgranò a zoi e giostre
E improbabile catechista
Raggio di socchiuse imposte
Eccomi al tuo fruscìo
Balbetto il più che mi chiedi
Mio male sacro - mio
Ritmo che mi precedi
(Visitazioni)
In casi come questo, quella che definii sbrigativamente "musica sonnambula delle promesse, delle spari ...[continua]
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