Uno o due passi indietro, per non dimenticare la poesia di due critici come Sergio Solmi (1899-1982) e Franco Fortini (1917-1994), critici poeti o poeti critici: la loro presenza e importanza nella cultura letteraria della prima e della seconda metà del Novecento è fuori discussione. Ma appare sempre più chiaro che l’importanza, l’impegno, la varietà e passione intellettuale della loro saggistica relega la loro produzione poetica in una zona più circoscritta, se non secondaria.
Difficile e assurdo negare che anche i critici siano scrittori e poeti nell’atto di capire, interpretare, descrivere, ritrarre autori di opere narrative e poetiche. La critica è critica della letteratura e della vita: critica e interpreta la vita attraverso la letteratura e facendo letteratura sulla letteratura in quanto forma data alle diverse e plurime esperienze della vita. Una volta Marina Cvetaeva ha detto che il primo dovere di un critico è di non scrivere brutte poesie: deve cioè capire, lui per primo, che le poesie che ha avuto la tentazione di scrivere sarebbe stato meglio non scriverle.
In effetti, leggendo Solmi e Fortini si ha sempre l’impressione che le loro poesie siano tentativi o tentazioni a cui si sarebbe potuto non cedere. Le loro poesie sembrano sogni o ipotesi di un’opera poetica per costruire la quale mancava loro sufficiente materia. Credo che sia Solmi che Fortini fossero abbastanza consapevoli di questo. La loro ispirazione è un’intenzione intellettuale, che tuttavia non diventa vera poesia intellettuale come è successo, in modi diversi, ad alcuni dei maggiori poeti intellettuali del Novecento, per esempio Paul Valéry, T. S. Eliot, Gottfried Benn, W. H. Auden. Si nota in Solmi e Fortini un difetto di realizzazione figurale del pensiero, come se il pensiero e l’esplorazione intellettuale avessero esaurito il loro impulso conoscitivo e inventivo prima dell’atto di scrivere versi e non dopo: non scrivendo versi.
Nella sua antologia Poeti italiani del Novecento (1978) Pier Vincenzo Mengaldo introduceva così Solmi: "Il suo maggior titolo di gloria è certo l’opera di critico (sulla letteratura francese da Montaigne ai contemporanei, su Leopardi, sul Novecento italiano), da collocarsi fra i più cospicui in Italia nell’ultimo secolo, di un gusto e di una precisione di giudizio pressoché infallibili. Ma essenziale alla sua fisionomia è anche la fedeltà alla poesia, affidata a una discretissima produzione, sempre molto attentamente selezionata”. I libri di Solmi vanno da Fine di stagione (1933) a Poesie (1950), a Levania (1956), a Dal balcone (1968). Amico di Giacomo Debenedetti fin dalla comune giovinezza torinese, interprete fondamentale e insuperato di Montale, attratto dalla saggistica francese sia di un grande classico come Montaigne, sia di un novecentesco amico di Valéry come Alain (maestro di Simone Weil), la cultura letteraria di Solmi arriva alla fantascienza, di cui curò un’antologia: Le meraviglie del possibile (1957). Quanto al suo stile, Solmi contamina Montale e Saba, cultura torinese (Piero Gobetti) e cultura triestina (Bobi Bazlen). Inoltre, il suo tradizionalismo e saggismo (sempre presente anche nei suoi versi) lo avvicinano alla prosaicità neoclassica e "leopardiana” di Vincenzo Caldarelli. I suoi sono versi meditativi, riflessivi e descrittivi. In una poesia giovanile come Canto di donna compare subito la coppia ispiratrice di desiderio e nostalgia:

Canto di donna che si sa non vista
dietro le chiuse imposte, voce roca,
di languenti abbandoni e di improvvisi
brividi scorsa, di vuote parole
fatta, ch’io non discerno.
O voce assorta, procellosa e dolce,
folta di sogni,
quale rapiva i marinai in mezzo
al mare, un tempo, canto di sirena.
Voce del desiderio, che non sa
se vuole o teme, ed altra non ridice
cosa che sé, che il suo buio, tremante
amore. Come te l’accesa carne
parla talora, e ascolta
sé stupefatta esistere.
1926

La vera vita, la vita fisica, un eros elementare e primario, che suggestiona e sfugge alla vita mentale, risuonano come un "canto di sirena”, come un desiderio che per caso sorprende se stesso, stupefatto di sé. E con il passare degli anni, dei decenni, una poesia come Levania, dedicata alla luna, allegorizza il senso di lontananza malinconica dalla vita terrestre, dal "verdeggiante pianeta” che è la Terra, avvistata e contemplata dallo spazio, dall’arido, pallido, roccioso satellite:

(...)
... Era il confine, il mondo
...[continua]

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