Quello coi maestri di strada napoletani è stato un altro degli incontri importanti per la rivista. Con loro, con Carla Melazzini e Cesare Moreno, abbiamo capito molte cose dei problemi della scuola e non solo. Ogni volta che in un incontro dobbiamo raccontare della rivista e delle domande da farsi per una buona politica, si finisce a raccontare dei maestri di strada napoletani. Per esempio il racconto di Cesare Moreno di quel ragazzino che sa smontare e rimontare un motorino in un pomeriggio ma viene bocciato e ribocciato nella scuola dell’obbligo. Quella competenza, nel regno scolastico del “classico”, non fa credito.
Premessa
Avendo sempre insegnato nei bienni di istituti professionali e tecnici di periferia, ho registrato, dal punto di vista delle abilità di base, situazioni più o meno omogenee tra gli alunni delle prime classi: in una classe di 28 alunni, almeno due si debbono considerare semianalfabeti; due-tre hanno un livello accettabile, tutti gli altri, circa i tre quarti, stazionano in un limbo di frasi stentate e di pensieri sparsi. Risultato: le prime di 28 diventano seconde di 15, e quinte di 9-10, che si diplomano col minimo, salvo i soliti due che sono la eccezione necessaria per confermare la regola. Sulle ragioni di tanto sfacelo non mi pronuncio. [...] Nei colloqui di accoglienza i ragazzi non hanno dubbi: è stata la bocciatura in prima media, che si è tirata dietro come inevitabile una seconda bocciatura. Allora i giochi sono fatti: non è possibile, a 13-14 anni, stare nella stessa classe con dei bambini.
Nelle società che chiamiamo primitive le più importanti tappe della vita erano sottolineate da riti. La trasformazione più sconvolgente, cioè il raggiungimento della maturità sessuale da parte del bambino o della bambina, veniva elaborata attraverso dure prove che simulavano la morte dell’Io infantile e la nascita del nuovo Io adulto, simboleggiata dal cambio del nome. Ora che siamo civilizzati, e perciò ci siamo dimenticati che il corpo e le emozioni non hanno seguito lo stesso ritmo di sviluppo del cervello e della mano, gli unici rituali che accompagnano le tappe dell’evoluzione bio-psichica del cucciolo dell’uomo sono i passaggi dei cicli scolastici: ben misera cosa, ma meglio che niente. L’ingresso alla scuola media apre nella vita del ragazzo una fase drammatica: trasformazione di un corpo che non si riconosce più, lutto per l’infanzia perduta, necessità di staccarsi dai genitori per costruire la propria autonomia, bisogno vitale di un nuovo punto d’appoggio, e di trovarlo là dove solo può essere, nel gruppo dei pari.
Nell’ottica di questa vita sotterranea di emozioni, relazioni e sconfitte, la bocciatura in prima media, e a maggior ragione la seconda bocciatura, acquista un significato dirompente: non è solo lo scacco sul tavolo delle prestazioni intellettive ma, ben più grave, uno scacco esistenziale, l’essere ricacciati nell’infanzia, perdere i propri punti d’appoggio, essere costretti a riferirsi a un gruppo che non è più di pari. È, come dicono i nostri ragazzi, stare in classe "che creature”.
Si capisce quindi anche la forza della proposta Chance: prepararsi alla licenza media significa non solo il riscatto dai ripetuti fallimenti, ma una sorta di riequilibrio bio-psichico, la ricostituzione di un vero gruppo dei pari, che possono reggere anche quei ragazzi -e non sono pochi- che sono fuggiti dalla scuola sopratutto perché incapaci di sostenere le tensioni e i conflitti interni al gruppo dei coetanei.
Anche una scuola che non fosse, come quella esistente, tesa prevalentemente a richiedere e valutare prestazioni, troverebbe difficile fornire motivazioni intrinseche allo studio a preadolescenti immersi in un guado così difficile. Ma la scuola esistente invece è concentrata sulla richiesta e sulla valutazione di prestazioni; nel migliore dei casi si proietta in avanti, cercando di adeguarsi ai ritmi sempre più vertiginosi del cervello e della mano, ignorando il substrato profondo e antico dei corpi e delle emozioni.
L’arte della conversazione
Il preadolescente diffida dell’insegnante non perché parla italiano, ma in prima istanza perché parla, e in genere parla troppo, mentre lui è intasato da emozioni e conflitti che si esprimono col silenzio, con il corpo, con il gesto, con l’urlo. La parola dell’insegnante, invece di aiutarlo a mettere ordine in quel caos dandogli pian piano una forma, troppo spesso vi sovrappone semplicemente una gabbia di regole, oppure parla d’altro. L’insegnamento linguistico è prima di tutto dialogo, e nel dialogo viene prima di tutto l’ascolto: sennò è vero quello che dicono i ragazzi, che usiamo le parole per avere sempre ragione noi. Solo se impara ad ascoltare, l’insegnante può avere la pretesa di essere ascoltato. C’è nelle scuole una linea didattica che ha a una estremità la situazione tipica da liceo classico (che io chiamo l’obitorio della scuola italiana): un insegnante che parla per cinque ore, una classe in silenzio. Quando mia figlia se ne lamenta e io le chiedo: "Tu che fai?”, lei risponde: "Ma io non ascolto”. All’estremità opposta c’è la situazione Chance, nella quale siccome si fa sul serio da entrambe le parti, cioè non è permesso quel "facciamo finta che” su cui si basa tanta parte delle attività scolastiche, gli alunni esercitano la loro didattica su di noi con spietata sincerità: "Nun parlate”, "Stateve zitta”, per non citare le varianti napoletane. E l’insegnante deve imparare la dura arte del dialogo vero.
Una pratica assai importante è la conversazione collettiva organizzata nell’assemblea settimanale. Anche questa non è un dato ma una conquista. Essendo un luogo della parola, anche l’assemblea suscita rifiuti, diffidenza, ostilità. Il primo anno di Chance una buona parte dei ragazzi non ci mise mai piede, limitandosi ad azioni di disturbo. Ci sono poi quelli che partecipano stando appoggiati allo stipite della porta, quelli che ascoltano da fuori, quelli che si sdraiano sui tavoli: è il linguaggio dei corpi, che bisogna decifrare con pazienza prima di poterlo modificare. In genere occorre un po’ di tempo prima di sentire quel "ià, dicite”, che apre la strada alla parola. Ma la diffidenza è tale che c’è sempre qualcuno che non riesce ad ascoltare. Comunque, anche l’assemblea deve durare poco, occorre imparare a dire le cose essenziali nel più breve tempo possibile. La cosa decisiva per legittimare l’assemblea come spazio della parola condivisa è la disponibilità degli insegnanti ad ammettere pubblicamente i propri errori. Non dimenticherò facilmente lo sguardo di Rosa, capintesta di un braccio di ferro sull’orario della colazione mattutina, quando iniziai l’assemblea dicendo: "Ragazze, la vostra reazione di ieri così violenta ci ha fatto capire che in qualche cosa abbiamo sbagliato, ne abbiamo discusso e adesso vi diciamo in che cosa, secondo noi”. La verifica, il premio, arriva come sempre inaspettato, per via indiretta. Ad esempio quando, verso aprile, avendo saltato un’assemblea per scarsità di alunni, si sente gridare improvvisamente: "né, ma l’assemblea na facimmo chiù?”. Uno spazio della parola è diventato un bisogno.
Fratelli minori
A determinare questo risultato ha contribuito in maniera decisiva un’esperienza forte, che vale la pena raccontare.
In previsione della festa della mamma abbiamo progettato una mostra-mercato degli oggetti di ceramica e legno prodotti dai ragazzi, nell’atrio della scuola elementare che ci ospita. I ragazzi girano per le aule invitando bambini e maestre; la direttrice ci comunica che non è consentito intascare personalmente denaro, suggerisce di acquistare qualcosa che rimanga nella scuola. è la ribellione: nessuno è disposto a lasciare in eredità ai futuri ragazzi Chance, di cui si è già gelosi, il frutto delle proprie fatiche.
Come sempre accade, le cose migliori nascono dalla riflessione e riparazione degli errori: non solo nelle relazioni tra persone, ma nel processo di qualunque apprendimento, che si impara sbagliando non è un proverbio consolatorio per gli erranti, ma il principio epistemologico di base. Dunque, in un’assemblea d’emergenza proponiamo ai ragazzi di destinare il ricavato della mostra in opere di bene, ad esempio giocattoli per i bambini che fanno scuola in ospedale. La proposta è accettata con gioia: da qui prende il via un incontro entusiasmante con i bambini della scuola elementare, che collaborano egregiamente all’impresa. Sono giornate di attività così coinvolgente da non accorgersi nemmeno che per mattinate intere si è parlato, in italiano ovviamente, si è letto, si è scritto, con naturalezza e piacere. L’incontro con i piccoli malati di Oncologia pediatrica è commovente: per la prima volta i ragazzi Chance accettano ciò a cui si sono sempre rifiutati: misurarsi con un dolore più grande del loro.
La verticalizzazione degli istituti scolastici offre occasioni preziose. Al preadolescente il bambino regala la doppia opportunità di riallacciare rapporti con la propria infanzia perduta affermando contemporaneamente la propria "maggiorità” in modo collaborativo e non antagonistico, come avviene nel gruppo dei pari. Coi bambini si può esprimere il desiderio inconscio di maternità così forte nelle ragazze di questa età, il ruolo di fratelli maggiori turbato in famiglia da gelosie spesso devastanti. Coi bambini si mostra il meglio di sé, e si parla italiano.
Usiamo la metafora!
Non c’è strumento linguistico che possa raggiungere più direttamente il cuore del ragazzo, le sue emozioni quanto la metafora. Usiamola senza risparmio: quasi tutte le operazioni didattiche possono essere presentate non come cose morte, come appaiono dalle pagine dei libri, basta una metafora per farle vivere, cioè acquistare un significato importante per i ragazzi, senza che se ne rendano conto. La scuola purtroppo sembra avere la capacità di togliere significato a qualunque cosa. La metafora può contrastare questa potenza paralizzante. La moda strutturalista dei decenni passati è riuscita a surgelare e disattivare perfino le pagine più ricche di potenziale metaforico, che sono i testi letterari. Mi veniva da piangere a vedere classi intere intente a dissezionare le pagine più belle sul tavolo anatomico per scoprire che cosa? Non i significati che arricchiscono la vita, ma la fabula e l’intreccio, per non dire delle 31 funzioni di Propp. Come se a un bambino che non ha mai incontrato un animale si presentasse un capretto da sezionare e disossare, per vedere come fanno i macellai.
Ricostruire le sequenze di un breve testo può essere un gioco divertente e utilissimo, che acquista un significato in più se presentato usando la metafora del rompere e aggiustare, che ha risonanze immediate nell’animo di un adolescente. Nascono anche vocazioni professionali da risonanze di questo genere. La passione per il motorino a questa età non nasce solo dalla possibilità di muoversi lontano da casa, ma anche dal suo rompersi e aggiustarsi: parecchi ragazzi diventano ottimi meccanici in questo modo.
Riparare, costruire, la casa, la strada, gli animali: quante attività didattiche, non solo linguistiche, possono acquistare significato partendo da una metafora che esprime, senza rivelarsi, perché questo le toglierebbe efficacia, i nodi di emozioni che l’adolescente si porta dentro.
Il testo letterario rimane il principale deposito di significati, purché non venga ucciso dalle pratiche didattiche. L’incontro con il libro è un evento personale, intimo, di cui l’insegnante deve farsi mediatore. Basta una pagina, ma la lettura deve essere ad alta voce, ed espressiva, e chi legge deve trasmettere un evidente piacere. Per migliaia di anni la narrazione è stata orale e collettiva, la lettura muta di un testo scritto ha poche decine di anni, ed è una pratica individuale.
Anni fa lessi in una classe le prime righe della Metamorfosi di Kafka; poi chiesi ai ragazzi chi dei membri della famiglia, secondo loro, avrebbe accettato di prendersi cura del povero Gregor Samsa trasformato in un immondo scarafaggio. I maschi all’unanimità risposero "la mamma”. Perché? Ovvio: perché "pure ‘o scarrafone è bello a mamma soja”. Solo una ragazza propose la sorella. Il giorno dopo ero in biblioteca, si affaccia il più piccolo e brutto della classe, chiedendo timidamente: "professorè, lo tenete qui il libro dello scarrafone?”.
Non so se nella sua potente metafora Kafka avesse incluso le emozioni di un adolescente che si sente orribile e schifato da tutti; certo è che questo significato veniva aggiunto e attivato nel momento in cui il mio povero alunno proiettava se stesso nel protagonista del racconto. Non so se il ragazzo sia poi diventato un lettore, ma l’incontro con quel libro resta un’ esperienza della sua vita. Uno dei compiti più importanti di noi insegnanti è di offrirci come mediatori di questi incontri. (febbraio 2002)