Dopo le esplosioni di novità culturali e politiche che si ebbero dopo la metà degli anni Cinquanta e fino a quel cosiddetto anno fatale che fu il 1968, fu come se all’improvviso si interrompesse quella paradossale "continuità rivoluzionaria” che aveva legato gli intellettuali illuministi alle avanguardie novecentesche di ogni genere. L’idea era stata di cambiare radicalmente la società, la politica, il modo di essere e di sentire: cambiare il mondo (secondo Marx) e cambiare la vita (secondo Rimbaud), rivoluzionare i sistemi di potere, i comportamenti individuali, le forme del sapere e dell’espressione. La modernità era stata l’epoca che aspirava a una nuova arte, a una nuova filosofia, a una nuova scienza, a una nuova politica, portando conflitti e contraddizioni al loro limite estremo, fino a fare esplodere abitudini e tradizioni, istituzioni, forme di autorità e consuetudini accettate. Fu una lotta senza fine per il Nuovo, in un permanente stato di opposizione, di critica e di rivolta. Ma dopo due secoli, in poco più di un decennio, tutte le rivoluzioni, con il loro culto di sé e i loro dogmi intimamente contraddittori (il famoso imperativo "sii libero!”) sembrarono esaurite.
Nel più ristretto e limitato campo della letteratura, della narrativa e della poesia, per alcuni anni relegate dalla politicizzazione totale nello spazio dell’irrilevante, si capì che l’innovazione permanente e storicamente lineare delle forme non funzionava e non interessava più. La stessa idea di avanguardia sembrò improvvisamente invecchiata. Non si potevano replicare le rivoluzioni narrative di Joyce e Kafka immaginando di andare oltre, né fondare movimenti artistici organizzati come partiti politici replicando il Surrealismo, che aveva immaginato di integrare la liberazione dell’inconscio (un Freud male interpretato) e la "rivoluzione permanente” (l’illusione del bolscevico Trockij).
Ma veniamo all’Italia. Nel 1965 un trentenne critico letterario e teorico estremista come Alberto Asor Rosa scrisse un ritratto in apparenza rispettoso, in realtà liquidatorio di Franco Fortini, che dal 1945 in poi era stato il poeta e letterato di sinistra più consapevolmente impegnato nel leggere i processi culturali in chiave di marxistica "critica dell’ideologia”. Il torto di Fortini, secondo Asor Rosa, era stata l’incoerenza di credere nei valori della cultura, di continuare a scrivere poesia, volendo nello stesso tempo essere o sentirsi rivoluzionario. In questo saggio su Fortini così scriveva Asor Rosa: "Non so come, a chi tratta parole in forma letteraria, non si geli la lingua in bocca, ogniqualvolta arrivi ad esser capace di intendere la condizione nella quale il mondo si trova. Mai la necessità ha raggiunto un livello così estremo, mai le parole sono state così inadeguate allo scopo. Di fronte al regno della necessità bisogna avere il coraggio di rinunciare a tutto ciò che non è necessario: la bellezza, la consolazione, la speranza, il dolore, il piacere debbono essere cancellati dal nostro orizzonte. A chi ci obietta che ciò è assai più che rinunciare alla poesia: è rinunciare all’uomo, risponderemo che appunto di ciò intendiamo parlare. Solo un taglio di spada, drastico e provocatorio come questo, chiarisce fino in fondo che la lotta di classe non passa attraverso le idee, i valori, la cultura” (L’uomo e il poeta, in "Angelus Novus”, 5-6, dicembre 1965).
Come esibizione di estremistica coerenza politica, pronta a rimproverare a chiunque peccati di amore per la cultura, questa di Asor Rosa è un esempio così eloquente da non meritare commenti. Esprime nel modo più elementare l’idea di una morte necessaria della letteratura, cioè della sua doverosa liquidazione politica. Dal 1967-68 all’inizio del decennio successivo, chi scriveva poesia lo fece perciò in una condizione di clandestinità morale. Erano gli anni dell’underground teatrale e delle "cantine”. Ricordo che Franco Cordelli, che ne era e ne sarebbe stato per almeno dieci anni il più fedele interprete, scrisse prima del 1970 un articolo intitolato "Letteratura come carboneria”, dando un nome allo stato di clandestinità di quella che anni dopo sarebbe invece diventata "creatività diffusa”, arte per tutti, fatta da tutti.
Per quanto riguarda la poesia, il passaggio dalla vergogna dell’essere poeti alla fede in una poesia senza radici letterarie, riscoperta e reinventata da ogni scrivente, una poesia anticulturale e "selvaggia”, ebbe la sua prima manifestazione edi
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