Cari amici,
dopo tre mesi e mezzo di manifestazioni pro-democrazia, che si concludono quasi sempre con scontri violenti con la polizia, e contro-manifestazioni pro-Partito comunista (alle quali la polizia a malapena si presenta), le fratture che dividono Hong Kong sono molteplici. Una mia amica cinese (ovvero, della Cina continentale) l’11 settembre mi ha mandato un messaggio via Whatsapp: “Ci saranno attacchi terroristici questa notte! I manifestanti più radicali vogliono incendiare i parchi naturali!”. Ho cercato di calmarla, chiedendole dove avesse letto la notizia, e se fosse una fonte affidabile. Le era arrivata via WeChat (sorta di whatsapp cinese, ma con più funzioni -tutte controllabili e censurabili dalla sicurezza cinese) ed era stata riportata dal quotidiano “China Daily”, giornale cinese di lingua inglese, sotto censura e controllo come tutta la stampa cinese.
Il “China Daily” di solito cerca di sembrare credibile, malgrado la propaganda, ma ultimamente si scaglia contro le proteste pro-democrazia di Hong Kong con notizie assurde e allarmistiche. In parte funziona, visto che le persone fanno girare queste notizie. In questo caso, però, ho detto all’amica che mi sembrava improbabile: perché mai i manifestanti di Hong Kong avrebbero scelto proprio l’11 settembre? E poi io non avevo sentito nulla di quel genere, di certo fra giornalisti lo avremmo saputo, no? Non volendo offenderla suggerendole di non dare retta a tali scemenze, le ho detto: riparliamone domani, speriamo in bene.

Il giorno dopo le ho mandato un emoji del sole, scrivendo: “Nessun incendio!”, ma non ha risposto. Un’altra amica, invece, di Hong Kong ma poco propensa a sostenere i manifestanti (che secondo lei stanno creando troppo subbuglio: in fondo non si sta bene a Hong Kong? Perché non accontentarsi?) mi ha mandato un poster, sempre via Whatsapp, con una serie di scritte in inglese opera di “cittadini di Hong Kong che nessuno ascolta: la maggioranza silenziosa che è stata terrorizzata dai manifestanti!”. Di nuovo, ho fatto appello alla parte migliore di me, ho pensato che è una persona a cui voglio bene, e che invece di arrabbiarmi per questi goffi tentativi di propaganda, era meglio parlare, e chiederle se avesse tempo di prendere un caffè insieme. Le ho dunque chiesto se davvero fosse terrorizzata, se lei, o qualcuno di sua conoscenza, davvero si sentisse spaventato, o fosse stato addirittura attaccato da qualche manifestante. “Io non ho notizia di negozi vandalizzati, solo un ristorante di proprietà delle triadi -le ho detto- ma magari certe cose non vengono rese pubbliche e tu invece ne sei a conoscenza?”. No, nemmeno lei aveva sentito di vittime, ma voleva esprimere il suo disagio: “Non tutti sono d’accordo e per molti di noi la vita, da quando ci sono le manifestazioni, è diventata molto più scomoda”. Le ho rinnovato l’invito a vederci, ma ancora non mi ha dato appuntamento. Lo stesso pomeriggio, ecco un altro poster inviatomi sempre via whatsapp, questa volta da una persona che invece era infuriata con il “China Daily” per l’ennesima falsa notizia, questa volta ancor più sordida: la vignetta di un’infermiera a cui la polizia ha sparato un proiettile a pallini in un occhio, accecandola, con la scritta: “Rivelazione: Jimmy Lai (il padrone del quotidiano ‘Apple Daily’, l’unico quotidiano di Hong Kong pro-democrazia) ha pagato cinque milioni di dollari di Hong Kong (circa 600.000 euro circa) all’infermiera, affinché sacrificasse l’occhio e desse la colpa alla polizia!”.
Jimmy Lai è uno dei bersagli preferiti dal Partito comunista. Traditore in quanto cinese (è nato a Canton, ma è arrivato a Hong Kong negli anni Cinquanta) e pro-democrazia, ha scelto di dedicarsi all’informazione. Di recente, i suoi parenti ancora in Cina hanno deciso di radiarlo dalla genealogia familiare e hanno tolto il suo nome dal tempio ancestrale. A riprova che nella battaglia in corso a Hong Kong, che vede da una parte la polizia e un governo ottuso e dall’altra i manifestanti pro-democrazia (la violenza contro i quali è stata subappaltata a gruppi mafiosi), il controllo delle informazioni è fondamentale.

Camminando per la strada con l’iPhone, di tanto in tanto si viene sorpresi da una vibrazione che chiede se si vuole accettare un airdrop da sconosciuti. Accetto sempre: prima dell’estate di rivolta di Hong Kong, non lo facevo, dato che si trattava soprattutto di sconti per prodotti di bellezza, ristoranti, o pure servizi di massaggi erotici per turisti dalla Cina continentale. Adesso invece via airdrop arrivano messaggi politici, che mi interessano di più. Per airdrop mi è arrivata la fotografia terribile dell’infermiera a terra con il proiettile a pallini in mezzo al sangue che le esce dall’occhio. Oppure ricevo poster che annunciano nuove manifestazioni, nuovi slogan, o semplicemente incoraggiano gli hongkonghesi a continuare nella lotta. Ma aumentano anche le notizie false, specchio dell’ansia e dell’emotività di questi giorni. “Sei ragazze sono state violentate nel centro di detenzione poliziesco dove non lasciano entrare gli avvocati!”, diceva un airdrop. Un altro chiedeva che l’azienda della metropolitana, la Mtr, rendesse pubbliche le riprese delle telecamere a circuito interno della stazione di Prince Edward del 31 agosto, dato che molti manifestanti sono convinti che la polizia abbia ucciso un ragazzo a manganellate, dopo aver fatto chiudere le saracinesche all’ingresso e impedito l’arrivo dei soccorritori. Anzi no… forse tre ragazzi… almeno tre ragazzi morti. Per giorni, la stazione di Prince Edward è stata ricoperta da fiori bianchi (simboli del lutto), centinaia di persone sono andate a inginocchiarsi davanti all’ingresso, ancora blindato, e per tre notti di fila ci sono stati scontri con la polizia antisommossa, che ha sparato lacrimogeni, proiettili a pallini, e spruzzato spray al peperoncino addosso a tutti. I dimostranti tenevano fra le mani dei cartelli che dicevano: “Polizia assassina, dateci le riprese”. Col passare dei giorni si è tornati a più miti consigli: davvero tre persone, o anche una sola, potrebbero essere state uccise e fatte sparire senza alcuna traccia in una città come questa? Il fatto è che, come con le amiche che ricordavo, provare a placare le emozioni più forti suscita diffidenza: non si tratta di razionalità, di credere o meno alle notizie più incredibili; qui siamo nella professione di fede. Si dichiara da che parte si sta. E, davvero, non è difficile sapere da che parte stare: di sera, la polizia spara lacrimogeni, picchia, chiama “scarafaggi” i manifestanti e i giornalisti. Di giorno, alla conferenza stampa quotidiana, nega tutto. Il governo mente e cerca di deviare l’attenzione. I gruppi mafiosi indossano magliette con scritto: “Amo la polizia”, e picchiano i ragazzi che tornano dalle manifestazioni.

Dopo tre mesi e mezzo di manifestazioni, dunque, siamo a questo punto: una polarizzazione estrema, e un divario crescente fra amici, familiari, colleghi, che non so immaginare in che modo potrà essere sanato, o quanto tempo ci vorrà. Il tempo a disposizione non è infinito: tutte le manovre da parte del governo di riportare ordine a Hong Kong sono state fatte in malafede e quindi sono fallite. Dapprima, c’è stato il maldestro tentativo di introdurre una legge che avrebbe autorizzato l’estradizione verso la Cina di sospetti criminali. Poi sono state ignorate le manifestazioni con più di un milione di persone che ne chiedevano l’immediata sospensione. La proposta di legge è stata poi “sospesa” ma non ritirata, per cui era impossibile fidarsi.
Dopo due mesi di manifestazioni, di brutalità da parte della polizia, di vandalismo contro gli emblemi di un governo latitante, ecco che il Capo dell’Esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, annuncia che in ottobre ritirerà formalmente la legge. Dopo più di 1500 persone arrestate; dopo che la polizia ha tirato più di 2500 candelotti di lacrimogeni; dopo le tante persone scappate verso l’esilio; dopo che nove giovani si sono suicidati lasciando messaggi disperati per il futuro politico di Hong Kong… l’annuncio di Carrie Lam è arrivato troppo tardi.
Ora i manifestanti vogliono anche un’inchiesta indipendente sull’operato della polizia, che i loro compagni siano rilasciati, che nessuno venga accusato di “sommossa” (dato che rischierebbe fino a dieci anni di prigione) e che sia finalmente concesso a Hong Kong il suffragio universale promesso nel 1997.

Pechino nel frattempo ha deciso di far sentire la propria voce in modo sempre più chiaro. A parte il ruolo della stampa di Stato nel fomentare disinformazione e confusione, ha lanciato alcuni strali contro i manifestanti: li ha definiti pure terroristi una volta, ma perlopiù si accontenta di dire che sono persone abbindolate da “mani nere” straniere che agiscono da dietro le quinte per destabilizzare la Cina. I “veri hongkonghesi”, ovviamente, per Pechino sono quelli fedeli al Partito. I quali hanno dunque risposto all’appello, organizzando manifestazioni pro-governative sventolando bandiere cinesi e indossando magliette rosso squillante.
Oggi, mentre vi scrivo, le manifestazioni sono ovunque: quelli con le bandiere si appostano agli angoli delle strade e menano i passanti sospettati di essere pro-democrazia. Un gruppo si dà appuntamento in un centro commerciale per cantare l’inno cinese e poco dopo arrivano gli altri, di solito senza bandiere, a cantare un nuovo inno appena scritto, che si chiama “Gloria a Hong Kong” -trionfale e dal sapore ottocentesco. Di mattina gli studenti medi circondano le scuole tenendosi per mano e cantando slogan per la democrazia, e alcuni di loro vengono presi a spintoni, minacciati con coltelli, o semplicemente insultati dagli sbandieratori patriottici. La polizia ormai non autorizza quasi nessuna manifestazione pro-democrazia, e allora i dimostranti manifestano lo stesso, sapendo che saranno caricati e che ci saranno nuovi arresti. È vero che siamo a una impasse, ma è un immobilismo movimentato.
Pechino del resto ha modo di mettere pressione su tutti. Dopo che il sindacato della compagnia aerea hongkonghese Cathay Pacific ha aderito a uno sciopero pro-democrazia, ecco che, citando questioni di sicurezza, l’autorità per l’aviazione cinese ha dichiarato che tutto il personale a bordo di aerei che si recano in Cina non deve aver mai partecipato a scioperi, né essere d’accordo con le motivazioni dello sciopero. Decine di persone, fra cui piloti e assistenti di volo, sono stati licenziati per aver messo su Facebook immagini dalle manifestazioni. E tutti, passeggeri e personale, arrivati alla frontiera devono dare la password del telefonino, e lasciare che l’immigrazione controlli se ci sono fotografie delle manifestazioni, o messaggi di sostegno. Alcuni sono stati respinti alla frontiera, altri sono stati detenuti. La Mtr è stata criticata per aver organizzato treni speciali per aiutare a sfoltire i passeggeri dopo le manifestazioni più massicce, e ora, per non essere penalizzata da Pechino, appena ci sono assembramenti chiude le porte e sospende il servizio, attirandosi l’ira dei manifestanti che vandalizzano le stazioni. Molte altre aziende stanno vivendo quello che qui viene chiamato “il momento del terrore bianco”, ovvero, un terrore senza spargimento di sangue, ma che mostra quanto l’integrazione economica fra Hong Kong e la Cina sia ormai in grado di far perdere il lavoro a chi mostra di non stare dalla parte del Partito.

L’estate è trascorsa in uno stato di insonnia permanente. E l’autunno non si preannuncia per niente tranquillo.

Nella foto: “Lennon Wall”, uno dei muri dei post-it, dove vengono affissi messaggi di incoraggiamento e sostegno per i manifestanti.