Quando si considera nel suo insieme la “nuova poesia italiana”, che continuiamo a pensare come “nuova” sebbene sia passato ormai mezzo secolo dalla sua comparsa, si ha spesso l’impressione che sia rimasta in prevalenza una poesia di eterni esordienti. L’idea di una crescita e maturazione delle personalità poetiche, che dopo gli esordi giovanili sviluppino sempre più consapevolmente e con crescente capacità tecnica i loro temi iniziali, è oggi difficile da applicare alla maggior parte degli autori. Più spesso che una maturazione, si nota in realtà un veloce declino. L’autore si ripete con monotonia e spesso in peggio. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di autori senza storia. È questo che rende difficile considerarli dei veri autori, cioè autori di un’opera poetica dotata di una precisa identità e consistenza. Anche in passato è accaduto che comparisse un certo numero di poeti che più tardi sparivano. In tutte le antologie di tutte le epoche, intorno alle due o tre personalità dominanti che hanno retto alla prova del tempo e di cui è possibile studiare l’itinerario, è sempre comparsa una costellazione di presenze secondarie, minori o effimere, di cui in antologie successive non si trova più traccia, di cui la critica ha smesso presto di occuparsi e che dopo qualche decennio nessuno legge più, anche per la semplice ragione che nessun editore ristampa i loro libri. Faccio solo qualche esempio. L’antologia Poesia italiana contemporanea 1909-1959 a cura di Giacinto Spagnoletti, uscita nel 1961 da Guanda (direttore editoriale Attilio Bertolucci), antologia che ebbe una certa fortuna anche nella sua versione scolastica, conteneva circa sessanta poeti, un terzo dei quali sono stati in seguito dimenticati. Chi prende più in considerazione, chi legge ancora le poesie di Giuseppe Villaroel, Girolamo Comi, Angelo Barile, Luigi Fallacara, Corrado Pavolini, Enrico Fracassi, Giulio Arcangeli, Luca Ghiselli, Antonio Rinaldi… ? Perfino di poeti “ermetici” come Salvatore Quasimodo (premio Nobel!), Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari, Leonardo Sinisgalli, non si parla quasi più. Se si apre l’antologia Poesia del Novecento curata da Edoardo Sanguineti e pubblicata da Einaudi nel 1971, si trovano autori oggi pressoché ignorati come Cavacchioli, Chiaves, Farfa, Fillia, Martini, Vallini. E nell’antologia d’avanguardia I Novissimi, uscita nel 1960, dei cinque autori più volte ripresi in antologie scolastiche immediatamente successive, oggi resistono solo Elio Pagliarani e Sanguineti. A volte qualche poeta viene riscoperto dopo essere rimasto a lungo ignorato: ma si tratta di casi sporadici che non sempre hanno un seguito. Si può fare lo stesso discorso per la “nuova poesia” emersa dal 1975 in poi? Direi di no, perché in questo caso la situazione è profondamente cambiata. La straordinaria e inarrestabile crescita numerica dei poeti non è stata accompagnata da una selezione critica comunemente accettata. Se fra i cento o duecento poeti di cui si sono conosciuti i nomi nell’ultimo mezzo secolo si deve isolare un ristretto gruppo di protagonisti sicuri, ecco che restano sempre molti dubbi. Ci sono autori notevoli dei quali nessuno parla e ce ne sono altri che sembrano “consacrati”, ma ai quali si può anche negare qualunque valore e importanza. La critica non è riuscita a imporsi con autorità, e così l’autorità è passata nelle mani di editori anche di lunga tradizione, come Mondadori, Einaudi, Garzanti, che però hanno perduto l’autorevolezza critica avuta ed esercitata in passato. Anche quelle che furono le collane di poesia più prestigiose, oggi sono affollate di autori effimeri che sembrano pubblicati in mancanza di meglio e solo perché, se esiste una collana di poesia, bisogna comunque alimentarla e trovare nuovi poeti anche se non ce ne sono, o convincono poco. La finzione di una continuità creativa deve essere, a quanto pare, editorialmente mantenuta. Per esplorare, necessariamente in sintesi, il panorama poetico sopra descritto, uso qualche tradizionale espediente: per esempio l’esibizione di per sé eloquente di pochi testi che sembrano esemplari di una svolta, di un mutamento di rotta; o ricorro al confronto in parallelo di due autori che mostrano di avere qualche presupposto in comune, ma che poi, nel corso del tempo, si sono rivelati sempre più diversi, opposti, inconciliabili. Per esempio, Giuseppe Conte, nato a Imperia nel 1945, e Giorgio Manacorda, nato a Roma nel 1941. Come nel caso del precedente parallelismo, quello fra Valentino Zeichen e Carlo Bordini, anche Conte e Manacorda hanno finito per avere un destino, sia letterario che pubblico, opposto. Conte, come Zeichen, è stato accolto bene fin dall’inizio dall’editoria e dalla critica. Manacorda, soprattutto perché dotato in proprio di un’intelligenza critica non addomesticabile e di una verve polemica priva di censure, è stato ripagato dagli “ambienti poetici” con un’ostilità che gli ha reso difficile perfino pubblicare. Ma si tratta anche di vedere, dal momento che ho deciso di accostarli in un confronto, che cosa possono avere avuto in comune, all’origine e in parte in seguito, due autori così diversi. Nella prima pagina della sua introduzione a Poesie 1983-2015 di Conte (Oscar Mondadori), un critico a lui piuttosto vicino e senza dubbio il suo migliore interprete, Giorgio Ficara, così scrive: “Se da una parte il mitografo e mitologo autore di Terre del mito aborre il Novecento più spoetizzato -demitizzato- dall’altra però lo considera proprio in quanto vuoto, scomodo, desolato ma colmabile di nuovi sogni. E se il poeta moderno e strutturato di ieri (il borghese-dandy Montale, ad esempio) prestava formalmente al suo tempo una metodica e riflessiva attenzione critica, Conte, oggi poeta antimoderno e anarchico per eccellenza, vorrebbe spazzare via il nostro e sostituirlo con un tempo che non c’è ancora, una specie di età dell’oro rovesciata e nuovissima”. In queste righe di Ficara viene sintetizzata la grande ambizione di Conte, un’ambizione “epocale”, si potrebbe dire, se non fosse che nell’alternativa culturale palingenetica proposta da Conte c’è un sapore di New Age, nel quale lo “spirito dell’utopia” di un marxista vitalista novecentesco come Ernst Bloch, viene immediatamente tradotto in un nuovo, nuovissimo e piuttosto vuoto, perché sconfinato, mito della Poesia. Conte è convinto cioè che la poesia, per esistere, abbia bisogno di abitare il mito, di nascere dal mito: di creare, di essere mito. Se il nostro tempo deve superare la desolazione, il vuoto di miti e il nichilismo critico del Novecento (di Eliot, di Montale e di tanti altri “poeti intelligenti”, cioè critici) c’è bisogno di tornare all’Ottocento e alla sua fede primaria, immediata, vitale nel puro atto poetico, quello di poeti visionari, romantici, epicamente panteisti come William Blake, Percy B. Shelley, Walt Whitman, David H. Lawrence, che Conte ha studiato, ha tradotto e a cui vuole ispirarsi. La smisurata ambizione di Conte lo porta alla volontà di essere poeta installandosi teoricamente, ideologicamente, al centro di un’idea di poesia che connette la poesia delle origini, la poesia romantica, la poesia come immediatezza di vita, a un tempo presente “postmoderno” che scavalca la modernità critica e autocritica in direzione sia dell’Origine che di un futuro liberato da vincoli intellettualistici inibitori. Conte, cioè, intellettualizza anche lui la poesia, ma ne costruisce la filosofia come anti-intellettualismo e anti-filosofia. E che cosa c’è prima e al di là della razionalità filosofica e della poesia riflessiva se non il mito della poesia come vita stessa, della poesia assoluta e immediata, carnale, sensoriale, ininterrottamente ispirata? Il paradosso in cui Conte vive è la necessità del Mito intellettualmente affermata, in quanto presupposto dello scrivere poesia. Il progetto precede così la realizzazione. La fede culturale precede e deve fondare, alimentare, giustificare a priori l’atto poetico, e perfino la sua qualità. Il poeta nasce dallo studioso di estetica. La discutibilità di questo circolo virtuoso-vizioso va tuttavia verificata andando alla sostanza formale, stilistica dei testi. Che genere di scrittura poetica può nascere da chi ha scritto queste parole: “la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse”. E poi: “Nessuno ascolta più la voce dei poeti”. Si capisce perché Conte è stato uno dei più instancabili e convinti sostenitori della “nuova poesia” come fede nella poesia, che se non riesce a salvare il mondo, salva, se non altro, chiunque la scrive, sottraendolo perfino alla possibilità di essere criticamente giudicato. Il primo pericolo, un pericolo letterario in senso stretto, è che il mondo così com’è esca dalla poesia, sia inconciliabile con la poesia. Non si tratta ovviamente soltanto di un’estetica e ideologia della poesia, che non ha inventato Conte. Il problema è il rapporto fra idee, convinzioni, intenzioni da un lato e testi poetici dall’altro. Nel passaggio, non è mai escluso il rischio di fallimento. Si tratta di vedere di volta in volta gli effetti letterari di una teorizzazione. Nessuna teoria “giusta” della poesia garantisce di per sé che la poesia “avvenga”, si realizzi, e quali siano le sue qualità occasionali. C’è comunque negli esordi di Conte qualcosa di impetuoso e incontenibile, una specie di ebbra eloquenza che deve la sua forza di suggestione alla densità, spesso enumerativa, cumulativa, paratattica in cui vengono nominate e celebrate delle naturali presenze fisiche, paesaggi di cui si percepisce più l’oscuro dinamismo creativo-distruttivo che le immobili superfici visibili.
Aprile che ritorna e che consuma nei
giardini di ginestre e di acanti, nei
voli di passeri invisibili e nei calendari
aprile che sgretola che versa dalle tiepide
foci le nuove nuvole – sulle
sue carte antiche ridisegna
le rotte per le mille chiglie dorate – che
si posa in questa piega della cadente
Europa su scalinate bianche palmizi e acquitrini, che
mescola i ricordi e i desideri, fu detto, e dà
il mal di capo. Ma ora flotte muovono
senza aver mai toccato porti, alzano
vele galeoni volanti, non sanno che
bandiera battono: sconosciuti traversano
– non hanno più piedi del vento, degli scirocchi – le
piazze, le automobili in sosta, i palazzi in
fila le porte dei caffé aperte i pome-
riggi i volti degli uomini e cupole
grigie: i cani abbaiano dai cancelli.
Abbiamo scavato le montagne, gettato i ponti, che
cosa sarà domani di noi? Aprile sa
ritornare, ora consuma, imbeve i giorni come
l’acqua fa della sabbia morta spinge
i cespugli di margherite ad affiorare e alzare
fitte ingigantite corone, oggi le ho guar-
date io che non posso più crescere, io oggi, io
sguardo, io pietra […]
Quando un paio di volte una parola si spezza in un arbitrario a capo, sembra che si tratti di un segnale di un flusso verbale incontrollabile. L’Aprile con cui inizia il primo verso allude ovviamente al celebre “April is the cruellest month”, primo verso di The Waste Land di Eliot. L’allusione sembra tuttavia oppositiva se non polemica, perché la terra di Conte non è vista come arida e desolata ma come produttiva di vita, carica di fluidi nutritivi. Mentre per Eliot aprile è il mese più crudele perché turba con il risveglio di memorie e desideri il sonno dell’inverno, Conte vuole invece celebrare proprio quei risvegli. C’è in lui il lirismo della rinascita, del nuovo inizio, della riscoperta dei poteri della poesia.
I poteri della poesia come vita è il tema di Conte, il suo unico tema. Ma questa enfatica dilatazione “preconcettuale” è anche il suo limite, o meglio ciò che occupa sempre più i suoi testi con fideistica monotonia. All’inizio la tensione poteva concentrarsi su una singola vita, fragile, sparuta, misteriosa, che appare improvvisa e assoluta nella sua singolarità, come in questi versi:
La cavalletta che vedemmo all’improvviso
colore della terra, sola, quasi
minerale e caparbiamente appuntata al
muro, troppo grande e sorda alle nostre
voci: da quali siccità, da quali
necropoli porta tanta polverosa
immobilità? Superstite di venti
immani e sconosciuti, di lontane
frane
(CORDYLINE AUSTRALIS HOOK)
Più tardi Conte è travolto dalla retorica della fede nella poesia, e in questo forse è proprio lui uno degli autori che meglio caratterizzano molta poesia italiana nei decenni tra fine Novecento e Duemila: una poesia che vive della certezza di “esserci” sempre e comunque, una poesia che legittima a priori con la sua idea e la sua ontologica eternità chiunque decida di scriverla e qualunque cosa scriva:
Oh Omero, oh Whitman, che cosa celebrare, e come posso
io ora celebrare, oh mondo, oh notte!
Come posso alzare questa voce avvilita, come posso
riempire le cavità dei miei polmoni rattrappiti
e farne due cieli gonfi di nuvole che volano e di foglie
invase e rose dall’autunno
e dire “io sono il poeta, il distruttore, io sono il poeta, colui
che salva”
e vedere ancora con quale elastica immobilità gli alberi
sono intermediari fra l’azzurro e la terra
e mettere il loro ritmo nella carne e nel sangue di un verso
- perché ha sangue e carne un verso -
...)
(OH OMERO, OH WHITMAN)
Tra i poeti antologizzati nel Pubblico della poesia, Giorgio Manacorda era uno dei pochi che in quel 1975 potesse già contare su un precedente riconoscimento. Nell’aprile 1964 alcuni suoi versi erano comparsi su “Paragone-Letteratura” accompagnati da una pagina di Pasolini nella quale si accertava “la qualità” del poeta appena ventenne, e si parlava del suo “assoluto e trasparente coraggio”, della “straordinaria intimità che riesce a stabilire col lettore”, della “persona recitante”, dell’“esposizione di sé” e della “idea romantica della forma” che si notavano nei versi di quel giovane. Nei pochi testi che comparvero dieci anni dopo nell’antologia generazionale citata, sembra quasi che Manacorda voglia correggere il se stesso che aveva descritto Pasolini. Sono strofette minime di versi assolutamente scarni, disseccati, lapidari, epigrafici, nei quali di “persona recitante” e di “idea romantica della forma” non c’è più traccia. Sotto il titolo estremo di Metafisica e fine l’autore tocca il fondo di una scarnificazione nominale e concettuale “che le cose scolpisce/come fossero morte”. I dubbi che l’autore ha su se stesso e sulla propria “creatività” sono qui arrivati all’estremo e non per caso la sezione antologica nella quale quei versi compaiono era intitolata “Come credersi autori”: perché il dubbio sulla propria figura pubblica e sullo stato sociale della poesia era giusto che accompagnasse quella generale o inconsulta scoperta di massa dell’io creativo.
Come Conte, anche se in modi diversi, in direzione e con strumenti opposti, anche Manacorda si sarebbe rivelato uno dei rari poeti, forse il solo della sua generazione, capace di conservare e mantenere attiva la propria coscienza critica, non smettendo né di teorizzare sulla poesia, né di esercitare la critica letteraria sui suoi coetanei e sulla situazione generale della poesia italiana.
Mentre in fondo Conte è rimasto un poeta “esordiente”, sia perché nei suoi esordi c’è il suo meglio, sia perché nella sua poesia non c’è sviluppo, non c’è storia, viceversa in Manacorda gli anni hanno portato l’autore verso tipologie più varie di discorso poetico. Il sostanziale isolamento rispetto alla società letteraria nel quale ha continuato a scrivere, gli ha permesso di lavorare e riflettere meglio. Nel corso di molti anni ha elaborato un libro che nella sua edizione conclusiva si intitola semplicemente La poesia (2016) mentre in precedenti edizioni compariva come Per la poesia. Manifesto del pensiero emotivo (1993) e La poesia è la forma della mente (2002).
Per due decenni, dall’inizio degli anni Novanta, Manacorda ha diretto un “Annuario” in cui la critica di poesia contemporanea ha trovato uno spazio che altrove mancava o era ridotto e impoverito. La capacità critica e autocritica di Manacorda si è manifestata sorprendentemente in Scrivo per te, mia amata (2009) libro nel quale l’autore riassume e riduce antologicamente all’essenziale tutta la sua poesia dal 1974 in poi. Un libro che tardivamente mostra la centralità della poesia di Manacorda nel suo intero arco evolutivo, almeno fino alle soglie di Catabasi (2019), che nella discesa agli inferi annunciata dal titolo riesce a rinnovare e reinterpretare retrospettivamente l’intero itinerario compiuto in precedenza.
I termini estremi di questo itinerario sono, per dirla in breve, autobiografici e “cosmologici”. Di solito queste due dimensioni tendono a escludersi reciprocamente. I fatti, le cronache dell’io autobiografico mostrano e fissano il loro confine nella quotidiana socialità o solitudine. Che cosa ci sia, si veda e avvenga lì dove la natura invade la storia, ne minaccia e ne destabilizza gli equilibri, sembra autobiograficamente quasi inaccessibile. In Manacorda avviene invece che l’inconscio naturale, lì dove il corpo comunica con la totalità e pluralità organica e inorganica, lo costringe a vedere ciò che nella convenzionale socialità è vietato vedere. Scrivo per te, mia amata è la rivelazione e realizzazione massima di Manacorda come poeta d’amore, e solo un paio di donne sono riuscite in poesia a fare qualcosa di paragonabile. Ma è anche il libro in cui il suo istinto autobiografico culmina e stilisticamente sembra esaurirsi. Da questo momento in poi prendono sempre più corpo e spazio le allegorie, le visioni mitiche, naturalistiche, cosmiche, già prima presenti, ma sullo sfondo. Viaggio al centro della terra (2014) si apre con una lunga poesia, “Per Ursula”, nella quale autobiografia, amore e lutto coincidono:
Ridammela, Signore, non importa
quando come perché, cancello tutto,
lei mi basta, mio Dio, non chiedo troppo
rimandala quaggiù sono sicuro
che sarebbe contenta, dacci il tempo,
non quei cinque minuti di terrore,
tra le mie mani lei non mi ha più visto
con gli occhi aperti, altro che croce,
tu ci ammazzi ridendo, tu banchetti,
e se invece sei povero e negletto
e torturato e solo e mi somigli
ammazza anche me, vecchio assassino,
ammazza in me l’ultimo bambino,
tu ti nutri di tutto, tu ci hai visti
dall’alto dei tuoi cilestri,
hai voluto anche tu quel suo calore,
tu ci vuoi nudi e soli, è la tua invidia
per il nostro parlare quotidiano
su una terrazza con il panorama
il sole quattro suoni cinque rose
uno sguardo la mano nella mano,
ma adesso lei non c’è, fammi vedere
uno dei tuoi miracoli, perché
non lo fai ora prima di morire
(...)
Nello stesso libro, nella sezione “Ultime cose”, si assiste a qualcosa di improvviso e inaspettato; una figura dell’impossibile che solleva l’autore oltre il dolore, fuori dell’umano, dove l’autobiografia è ridotta a un punto invisibile:
Scivolare sugli Appennini e forse sulle Alpi
sul Bianco o sul Cervino e lì dall’alto
guardare le barriere che scorrono nei cieli
che una brezza incostante ha scavato,
se il sole e la luna alzano il fondo dei mari
o schiacciano i pianeti in lente derive,
se cozzano le zattere dei continenti,
l’eterno che torna che lima che affonda
che tocca e ricopre, tu devi ascoltare.
(Il volo)
Siamo in prossimità del libro più recente di Manacorda, Catabasi, libro della discesa in basso, al fondo, negli inferi di una natura che tutto ingloba, ingoia e trasforma nella sua sovrana, indifferente crudeltà. Per compiere un tale viaggio i versi non bastano, non ce la fanno, sono troppo esili, leggeri e ritmicamente illusori. Ora c’è bisogno anche della prosa, brevi, compatti, duri frammenti, epitaffi che sfidano l’ubiquità di una naturale, ininterrotta “fine del mondo” visibile in ogni fine di qualcosa.
Onde
Dighe, acquitrini, mulini abbandonati, stagni e il cielo nero, pochi esseri umani che attraversano il vento e molti gabbiani feroci con chi vuole rubare le uova, gli scogli corruschi e un faro rosso che spazza il mare gelato. Le onde si ergono come sculture all’aria aperta.
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