Dura, durissima la vita del maschio bianco, specie se non più di tenera età, magari reduce del Sessantotto, poi gruppettaro (per i più giovani, i gruppettari erano gli appartenenti alle organizzazioni dell’estrema sinistra), infine mandato a casa a calci nel sedere dalle donne che avevano scoperto quella strana cosa che si chiama la soggettività. Fu uno choc scoprire che le subalterne (le ragazze) avessero voce, desideri, addirittura una memoria, indipendente dal sapere maschile. Fu così, non solo in Italia, ma un po’ ovunque in quella parte del mondo che chiamiamo l’Occidente. Ecco, fatti i conti con il femminismo (o non fatti ma malamente sospesi) al maschio bianco è rimasto come specie di imprinting lo schema per cui (in una caricatura del pensiero hegeliano) comunque l’Occidente è la Terra del Tramonto, del compimento quindi della filosofia e della storia. Poi arrivarono i dissidenti dell’Est (così veniva definita una vasta area di molteplici culture e lingue, dominata dall’Urss) a mettere in dubbio la validità del paradigma di una società senza classi. Così, quel compimento, quella fine non era più il comunismo, il potere dei soviet né varie sorti di utopie concrete, ma finalmente il liberalismo. L’uomo perfetto e definitivo, il coronamento del Creato è quello che fra il trinomio della Rivoluzione francese, Liberté, Égalité, Fraternité, considera il primo sostantivo il più importante, anzi l’unico per cui vale la pena vivere. Ma la pace dei sensi, raggiunta, è stata gravemente turbata dai discendenti degli schiavi che in questi giorni gli dicono: caro uomo bianco, il tuo è solo uno dei mondi esistenti e possibili e non è il mondo che ci piace e dove ci sentiamo a casa.
Seriamente. Poniamoci una domanda. Con una breve premessa. La premessa è la seguente. Nella memoria degli ebrei è fondamentale (alla lettera nel senso del fondativa) la vicenda della schiavitù egizia. Tuttavia, non si è sentito mai parlare di ebrei che avessero voluto o tentato di distruggere le piramidi, simbolo della schiavitù. La domanda è: perché? La risposta è semplice: perché nel frattempo gli ebrei hanno trasformato il dolore in rito.
Ogni anno a Pesach si celebra l’uscita dall’Egitto, non solo come atto di volontà divina e miracoloso, ma anche come il risultato dell’azione degli umani.
Ma c’è un’osservazione da fare. Per moltissimi anni, la tradizione ha voluto che gli ebrei romani non passassero sotto l’arco di Tito, quel monumento alla gloria dell’Imperatore che causò una catastrofe degli ebrei, la loro deportazione dalla Terra promessa.
Poi, un giorno vi sfilarono sotto, con gioia: fu quando nacque lo Stato d’Israele. È come se la ferita fosse stata cicatrizzata.
Ecco, la memoria degli schiavi deportati dall’Africa non è stata, o è stata solo molto parzialmente tradotta in una serie di rituali, commemorazioni, musei. La ferita è aperta, il dolore è vivo. E basterebbe citare la letteratura afroamericana (un nome per tutti, Colson Whitehead) per capirlo. Milioni di persone sono state private del loro status di esseri umani nel quadro di un sistema durato alcune centinaia di anni e che contemplava la privazione di ogni diritto, perfino del diritto a un nome, affettività, e una serie di pratiche di punizioni dove il lato sadico (e quindi il godimento perverso dei padroni) era minuziosamente regolato. Agli schiavi sono capitate cose inimmaginabili, inenarrabili e che solo da pochi decenni vengono finalmente narrate e quindi immaginate. E poi la memoria degli oppressi, degli sconfitti non è mai estinta né può esserlo per volontà (interpretata come storia ridotta a un libro chiuso) dei vincitori. E del resto, nella storia, le vittorie sono perlopiù provvisorie. Ecco, la memoria degli sconfitti e degli oppressi quando si risveglia diventa scomoda, spesso fastidiosa. È quello che sta succedendo, oggi, sotto i nostri occhi.
Intanto. Spesso si vuole dimenticare o ignorare che molti dei monumenti distrutti sono stati eretti come una sorta di rivincita diretta ed esplicita dei discendenti dei padroni sui discendenti di schiavi. Ci sono decine se non centinaia di statue nei Sud degli Stati Uniti poste nelle città nel periodo in cui gli afroamericani venivano privati del diritto di voto, mentre imperversava la pratica dei linciaggi (bastava uno sguardo di un maschio afroamericano rivolto verso una donna di pelle bianca). La segregazione razziale diventata norma, per lunghi decenni comportava anche forme di umiliazione meno estreme dell’uccisione e della tortura: per esempio chiamare gli uomini di qualunque età con l’appellativo Boy (ragazzo). Il razzismo è feroce. E del resto, pochi anni fa, una mia amica, attrice e cantante affermata, mi raccontava come a New York, non nel profondo Sud, quando arrivava ai ricevimenti e alle feste nei condomini di lusso, vedendo la sua pelle scura, il portiere le indicava l’ascensore della servitù: un riflesso automatico, naturale, del quale si scusava appena veniva a conoscenza del fatto che lei era un’ospite. E vogliamo ricordare di come Billie Holliday non potesse soggiornare negli stessi alberghi dei suoi compagni musicisti bianchi? Di tutto questo, poco o niente si è sentito nel dibattito italiano. È prevalso lo sdegno per la presunta iconoclastia.
Ora, è vero, a Londra è stata perfino imbrattata la statua di Churchill. Ma forse sarebbe bastato un piccolo sforzo di immaginazione per dire: Churchill era un eroe e tale rimane, ha salvato l’Europa dal nazismo e ha capito la natura del regime staliniano, però possiamo comprendere che a qualcuno la sua storia da colonialista dia fastidio. Non per rinunciare alla nostra percezione del personaggio, ma per allargare lo spettro cognitivo. Non sarebbe difficile, in fondo. È anche comprensibile il fastidio per la decapitazione delle statue, il gesto simbolico è forte, e tuttavia, penso che sia meglio decapitare le statue che non gli esseri umani. Voglio dire una cosa semplicissima: nessuno schema storico di stampo illuminista è in grado di governare la memoria quando si sveglia ed esplode. L’argomento, qualche volta usato per cui, chi distrugge i monumenti non costruisce un soggetto politico, non contempla l’ipotesi (plausibile) che forse i portatori della soggettività non hanno intenzioni di costituirsi in un soggetto politico. La storia non sempre segue le strade battute nel passato.
Infine. C’è un argomento ulteriore. Che suona grossomodo così: se tutto deve corrispondere ai dettami del politicamente corretto (che negli States talvolta assume davvero connotati grotteschi, ma non è questo il tema qui) per cui abbattiamo i monumenti, finiremo per non leggere Céline o per non ammirare le opere di Caravaggio.
Ora, consiglierei di non confondere i monumenti con le opere d’arte. I monumenti sono eretti a persone considerate esempi di virtù civiche (e per questo sono contestati e abbattuti, perché la nostra idea delle virtù civiche cambia assieme alla memoria), mentre le opere d’arte le ammiriamo per ragioni del tutto diverse. E infatti, continuerò a leggere i libri di Céline, ma non vorrei vedere nelle città i monumenti commemorativi alle virtù civiche di quello scrittore né allo spirito pacifico e non violento del grande pittore.
Ps. Fosse per me lascerei tutti i monumenti di tutto il mondo intatti. Ma non è mai successo nella storia.
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Wlodek Goldkorn è stato per molti anni il responsabile culturale de "L’Espresso”. Ha lasciato la Polonia nel 1968. Vive a Firenze. Ha scritto numerosi saggi sull’ebraismo. Il suo ultimo libro, autobiografico, è Il bambino nella neve, Feltrinelli.L’ultima ...
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