Francesco Ciafaloni. Premetto che non ho alcun titolo per fare un’introduzione, sono solo un lettore di giornali e l’unico elemento su cui, per eredità di mestieri passati, ho un’informazione un po’ più approfondita è il petrolio, perché ho fatto l’ingegnere del petrolio e mi è rimasta l’abitudine di leggere gli annuari. Partirei allora da quelle che, a mio avviso, sono le cause generali di questa guerra che forse scoppierà o, forse, potrà essere rimandata. La prima causa è innanzitutto la vittoria, che risale a diverse presidenze fa, di un’ala fondamentalista cristiana dentro lo schieramento repubblicano statunitense. Già in passato era sembrato che potesse diventare maggioranza di governo, poi con la vittoria di Clinton la cosa era ritornata in ombra; ora, invece, con la pur risicata elezione di Bush, quest’ideologia -peraltro continuamente sbandierata con grande vigore dal presidente degli Stati Uniti- è ritornata in auge. Quindi, a questo punto, possiamo considerare questa ideologia un elemento stabile del quadro politico americano. Stabile non nel senso che debba per forza vincere le elezioni, ma nel senso di qualcosa che non nasce ieri né la cui vittoria dipende da qualche voto in più o in meno in Florida.
La seconda causa è l’esistenza di una tesi geopolitica, anch’essa precedente sia all’11 settembre che alla vittoria elettorale di Bush, nata piuttosto subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che vede la possibilità del dominio globale da parte degli Stati Uniti attraverso il controllo militare; questo porta come corollario che una delle cause immediate della guerra può essere la necessità di “chiudere” il tessuto delle basi nell’area del Golfo. Dobbiamo sempre ricordare che gli Stati Uniti hanno basi in tutto il mondo: la Germania è stato un paese occupato fino all’altro giorno; se si toglie la Francia di De Gaulle, il resto, inclusi Italia e Turchia -quest’ultima più di ogni altro paese- è inserito in questo tessuto. A sostegno della tesi dell’importanza vitale di questo tessuto, ricordo che quando si trattò di scegliere fra Grecia e Turchia, e quest’ultima aveva un esercito vero, mentre quello greco era un esercito di ammazzagreci, la Nato scelse prontamente l’esercito vero, non quello finto, e i colonnelli greci caddero in una settimana.
L’altra causa, naturalmente, è il fatto che nel posto dove la guerra si farà c’è un mare di petrolio. Il petrolio c’entra nel senso che rende importantissimo il controllo strategico dell’area.
L’Iraq oggi vende petrolio più o meno al livello di prima della Guerra del Golfo.
Per dare un’idea dell’ordine di grandezza delle quantità immesse sul mercato o comprate dal mercato, cito dall’annuario ufficiale del petrolio e del gas. Ebbene, l’Iraq vende circa cento milioni di tonnellate, come l’Iran, la Gran Bretagna e la Norvegia. L’Arabia Saudita vende 350 milioni di tonnellate, lo stesso ordine di grandezza della quantità netta comprata dagli Stati uniti. Il petrolio iracheno, stando a una relazione che fece Gros Pietro, quando era ancora presidente dell’Eni, all’Università di Torino, è il meno costoso del mondo. La quantità venduta potrebbe essere aumentata. Ma gli americani non andranno a prendere materialmente il petrolio. Andranno a riprenderne il controllo strategico, a mettere le basi, come ho detto. Se i russi, i francesi vorranno comprare, potranno. Ma il controllo militare del territorio sarà americano.
Per non dare a queste premesse un orizzonte assoluto e irreversibile, come fanno Toni Negri o Alberto Asor Rosa (quest’ultimo addirittura usa l’aggettivo “eterno”, anche se poi si corregge: “eterno come le cose umane, 3 o 4 generazioni”) bisogna tenere presente che in questo quadro ci sono molti altri elementi: c’è un’Europa al momento divisa, ma ricomponibile; c’è un robusto movimento pacifista, o comunque antibellico, e non solo europeo; e ci sono delle potenze come l’India e la Cina, che insieme fanno due miliardi e trecento milioni di persone, poco meno, cioè, della metà del genere umano, che sono contrarie a questa guerra. Quindi le prospettive non sono univoche.
Intanto vorrei fare un inciso che riguarda noi italiani in primo luogo. Quando i Russi invasero l’Afghanistan l’Economist fece una copertina con il faccione di Brez ...[continua]
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