Stephanie Seymour, Elle Macpherson, Cindy Crawfrod, Carol Alt, Claudia Schiffer e anche Naomi Campbell. Erano le supermodelle che fra gli anni Ottanta e i primi Novanta del secolo scorso e hanno conquistato l’immaginario maschile dell’Occidente. Qui, nella Penisola (Isole maggiori comprese) le chiamavano “top”, abbreviazione della locuzione top model (e fu uno dei primissimi segnali di un certo modo di addomesticare -cambiandone il segno- l’altrimenti ostica lingua inglese: le donne in questione non erano top, erano semplicemente modelle, come i social media non sono social, locuzione italiana, ma semplicemente media). Ora, la moda è un sistema e un linguaggio che cerca di dare una rappresentazione del futuro. Certo, è anche una questione di mercato, ma già Karl Marx sapeva che il capitalismo (un rapporto sociale, non un soggetto) pervade e ingloba ogni ambito della nostra vita, parliamo quindi qui della moda come appunto di un linguaggio, un sistema semantico.
Le modelle citate sopra, a pensarci, corrispondevano a una certa immagine e a una certa idea della globalizzazione nascente. Sul piano saggistico, quell’idea l’aveva espressa, dopo la caduta del Muro di Berlino, Francis Fukuyama, nel suo celebre pamphlet sulla Fine della storia. E infatti, molti in Occidente erano convinti che con la sconfitta del comunismo e la vittoria, considerata definitiva, del capitalismo, la storia fosse arrivata al suo culmine. L’Occidente aveva avuto il suo trionfo e ora il resto del mondo si sarebbe adeguato ai criteri etici e anche estetici in vigore da queste parti (in Italia con la predilezione per le “russe”, comprese le ucraine e le “slave”, comprese le ungheresi e le rumene, ma qui sviamo e parliamo di un immaginario televisivo e non più della moda). In sostanza, e semplificando molto, i corpi delle modelle e i loro volti, più o meno armonici, corrispondevano alla immagine di un mondo avvenire, tutto all’insegna dei valori e dei lessici d’Occidente. In più, le modelle parlavano, avevano quindi voce e non solo corpo, articolavano pensieri e idee. Furono i prodromi di un’idea anche democratica del futuro e ovviamente delle donne come soggetto della vita e non solo oggetto dello sguardo maschile.
Poi, semplificando sempre e molto, la globalizzazione ha preso altre vie. La storia non è finita, le guerre sono state combattute nel cuore dell’Europa, il virus del nazionalismo e dell’identitarismo etnico (subito liquidato come frutto dell’arretratezza di certi paesi “dell’est” e della atavica ferocia balcanica appunto) ha contagiato l’Europa intera, le parti che sembravano immuni al nazionalismo, comprese. Dal mondo islamico è venuta l’idea di una donna non parlante e sottomessa e via elencando. Non solo. La globalizzazione ha fatto emergere la Cina come una delle potenze dominanti. Si diceva una volta che con la creazione di un unico mercato globale l’Occidente avrebbe venduto ai cinesi miliardi di spazzolini da denti, metafora della forza dirompente dell’Europa e dell’America del Nord. Invece sono i cinesi a venderci merci di qualunque tipo a prezzi concorrenziali. In più, sono emersi, anzi abbiamo scoperto, paesi strani, repubbliche ex sovietiche del Caucaso come l’Armenia o la Georgia (con i loro conflitti). Alla loro storia non ci siamo interessati anche se è impossibile apprezzare la poesia di Osip Mandelstam (per fare un esempio) se non si sa niente dell’Armenia.
Tutto quello che ho appena scritto è solo una lunga premessa per dire una cosa su Armine Harutyunyan, modella armena ingaggiata da Gucci. In Italia si è scatenato un dibattito molto sentito e assai appassionato che aveva per tema la presunta bruttezza, quindi l’inadeguatezza del personaggio al ruolo. I lineamenti della faccia della donna sarebbero contrari ai canoni estetici.
Il tutto si potrebbe liquidare come l’ennesima sciocchezza che interessa più che altro i social media, oppure come un trucco per far parlare del marchio Gucci (applicazione piuttosto rudimentale di alcune intuizioni geniali di Marx). Il fatto invece è che il sistema moda, e non solo l’azienda che aveva ingaggiato la signora Harutyunyan (persona coltissima e che viene da una famiglia di sofisticati artisti), da alcuni anni sta cambiando il nostro modo di percepire la bellezza.
Ecco, il nostro mondo oggi è così complesso da non poter essere interpretato e rappresentato in un modo univoco e con una narrazione lineare e continuativa. Viviamo in un mondo a pezzi, in frammenti (lo diceva Bauman e basti pensare anche alla narrativa, ai romanzi che sono ormai costruiti a costellazione, all’arte visiva). Questo mondo a pezzi significa la radicale messa in questione del mondo che fu. Non sappiamo tuttavia verso che tipo di mondo stiamo andando (pure questo lo diceva Bauman). La moda sperimenta altri mondi, usa frammenti di estetiche altre, rispetto non tanto ai quadri dei nostri musei, quanto all’immaginario maschile del Novecento occidentale (donna dai lineamenti di faccia gentili, possibilmente armoniosi, dal corpo che rispecchia i canoni leonardeschi, sebbene quei canoni erano fatti per corpi maschili, femminile quanto basta, emancipata ma non troppo e via elencando). La signora Haratyunyan, con la sua faccia e il suo corpo (imperfetti secondo questi canoni) è un esempio di questa ricerca.
Il dramma, perché di vero dramma si tratta, è che ancora una volta è emerso quanto in Italia la modernità sia un fenomeno che non accende più il desiderio. All’inquietudine per quanto destabilizzante del futuro tutto da immaginare e costruire nell’incertezza, si preferisce la placida nostalgia di un passato che non potrà tornare. Ma senza inquietudine e desiderio del futuro siamo più o meno morti (almeno noi che ci consideriamo ancora di sinistra).
Armine
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