Una ventina di anni fa mi ero trasferito per un certo periodo a New York. Pensavo di andare ad abitare in un paese all’avanguardia della modernità. Ero convinto pure, cresciuto sui film prodotti negli States, che Hollywood imitasse la vita americana. Dopo pochi mesi avevo capito invece (o credo di aver compreso) che gli Stati Uniti avevano alcuni caratteri di arretratezza -non parlo di politica- nella sfera dei costumi, del design degli oggetti dell’uso quotidiano e perfino della tecnologia, a cui non volevano rinunciare e che erano segni non di arretratezza ma di attaccamento a certe tradizioni. Avevo anche scoperto che non è Hollywood a imitare l’America ma è al contrario l’America a imitare Hollywood. E del resto, il cinema non è forse l’industria dei sogni? Ecco, gli Stati Uniti vogliono assomigliare al sogno. O, se vogliamo, il sogno viene prima della vita e poi ricompare nella vita, soprattutto nei rituali.
Quanto sopra è una premessa per una brevissima e frammentaria riflessione sulla cerimonia d’insediamento del presidente Biden il 20 gennaio a Washington. Era un perfetto esempio di un rito civile ma con citazioni esplicite della religione, un rito solenne con tratti di cultura popolare e infine una cerimonia che unifica tutti quanti rendendoli “americani”, ma dove con l’orgoglio si menzionavano le origini etniche delle protagoniste. Tutto questo sullo sfondo di parate di soldati in divise antiche, settecentesche e ottocentesche.
Abbiamo visto Jennifer Lopez cantare “This land is my land” e Lady Gaga esibirsi nell’inno degli Stati Uniti. A me ha fatto impressione la scena in cui un marine, con postura marziale, accompagnava verso il microfono una cantante tutto sommato trasgressiva, vestita in un modo non del tutto “istituzionale”. Qualcuno si ricorda ancora come cantò e suonò lo stesso inno Jimmy Hendrix a Woodstock nel 1969? Era una mattina d’agosto quando il musicista si esibì in “The Star Spangled Banner”. Lui era un giovane afro-americano. Il periodo era quello dell’apice della lotte di emancipazione dei neri e della guerra del Vietnam. Il suono che emetteva la sua chitarra era spezzato, si sentiva l’eco della violenza: nelle città degli Usa e nel paese lontano in cui ragazzi americani morivano e uccidevano. Era un’America dolente.
Lady Gaga invece, 52 anni dopo, quasi scandisce le strofe, accompagnata da una band militare, anzi da una band dei marines, corpi scelti di guerra. Si dice che la cerimonia di Biden sia stata una celebrazione della vittoria della democrazia contro Trump, il principe delle tenebre. Lo era anche. Ma quell’inno, ne sono convinto, era una risposta a Jimmy Hendrix, non a livello artistico, ma come messaggio: l’America riesce a superare le prove più dure, e il Vietnam è ormai storia (anche perché da quel periodo ci separano ormai due generazioni). Ora, quello che è interessante è che tutto questo succede attraverso il ricorso a un registro popolare nell’esecuzione dell’inno nazionale, nel quadro della più solenne delle cerimonie istituzionali.
Simile discorso si potrebbe fare a proposito di Jennifer Lopez. Di origini ispaniche, portoricane, vera icona pop e certamente non maestra di eleganza, JayLo (come viene chiamata) canta “This Land is My Land”, una canzone di protesta di Woody Guthrie, degli anni Quaranta, a sua volta icona da decenni dei radicali di sinistra Usa. Anche lei è accompagnata da un marine, anche qui suona la banda dei marine, lei urla pure una frase in spagnolo. Il testo, poi, è una risposta (così si dice) a un'altra canzone, di un immigrato ebreo, Irving Berlin, nato vicino a Vitebsk (città di Marc Chagall) come Israil Beilin, “God Bless America”. Per Berlin, l’America era Terra Promessa. Per Guthrie l’America era un luogo di gente povera, esposta allo sfruttamento. Avevano ragione ambedue, ma non è questo il punto. Il punto è invece la consacrazione di un potere che cerca fin dalla sua prima e quindi cruciale rappresentazione, una legittimità democratica e di normalizzazione istituzionale dopo che la democrazia ha corso seri pericoli; e lo fa con le voci e con i corpi di due protagoniste dell’industria dell’intrattenimento. Washington imita Hollywood.
Poi c’è tutto il resto. I sacerdoti che recitano testi religiosi: a riprova che anche la democrazia ha bisogno del sacro; la sottolineatura delle origini etniche di Kamala Harris (quasi a citare il sogno, seppure modificato, di Irving Berlin), fino al colpo di scena finale della giovanissima Amanda Gorman che recita una sua poesia.
Mentre guardavo tutto questo, riflettevo su quanto nella vecchia e stanca Europa ci manchino i riti civili. Quanto ne abbiamo paura, perché spesso li associamo a vicende storiche non edificanti, all’abuso che ne hanno fatto, nel passato, le destre (e pure gli stalinisti). Ma come facciamo a mobilitare le coscienze senza una sentita ritualità civile, senza un “sacro” laico, senza una solennità repubblicana che sappia far sua la cultura popolare? Non sono un ingenuo. So le differenze che corrono fra l’Europa e il Mondo Nuovo. Però una volta la sinistra, dalle nostre parti, certi linguaggi li sapeva usare (al netto dei contenuti stalinisti).
Ma come facciamo senza un "sacro" laico?
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Wlodek Goldkorn è stato per molti anni il responsabile culturale de "L’Espresso”. Ha lasciato la Polonia nel 1968. Vive a Firenze. Ha scritto numerosi saggi sull’ebraismo. Il suo ultimo libro, autobiografico, è Il bambino nella neve, Feltrinelli.L’ultima ...
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