Verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso e fino (più o meno) alla crisi del 2008, nel periodo insomma del massimo splendore della globalizzazione, abbiamo assistito a una specie di apoteosi delle società di consulenza, dei maghi dei sondaggi e delle strategie elettorali. Non mi ricordo più i nomi dei tanti “spin doctor”, così venivano chiamati, dei leader politici, pagati molto bene. Ma tutti, credo, siamo in grado di rammentare i racconti giornalistici delle loro gesta. In parole povere ed elementari, quelle società di consulenza svolgevano un compito molto simile a quello delle aziende chiamate e remunerate per fare pubblicità a un prodotto qualsiasi. O, se vogliamo, è stato quello un periodo in cui i leader politici e i lori partiti venivano proposti e rappresentati come se fossero un’automobile, un deodorante, un paio di scarpe di una certa marca, e rispettivamente: sicura e forte, in grado di togliere sensazioni sgradevoli, rassicuranti.
Facciamo una parentesi, prendiamo un sentiero, in apparenza, laterale. Ágnes Heller parlava spesso della trasformazione della società di classe in una società di massa. La filosofa ungherese considerava questa trasformazione una sfida per la democrazia e (se ho capito bene), una sfida per la sinistra e per le forze liberali. Una sfida, perché secondo lei e davanti all’evidenza dei risultati elettorali, le dinamiche della società di massa e non più di classe favorivano le destre sovraniste, nazionaliste, populiste. E non è questo il luogo per spiegare i meccanismi per cui abbiamo tutti bisogno di sentirci parte di una qualche comunità, immaginaria o vera. Quello che mi interessa è rimarcare invece quanto appunto (e qui seguo invece Zygmunt Bauman) la società di massa, in fin dei conti, è un insieme di individui consumatori. O meglio, si è cittadini in quanto consumatori. Gli altri, coloro che non sono in grado di comprare merci, sempre più nuove, sono degli “scarti”. Ecco, cittadini consumatori, cittadini soli, cittadini senza alcun riferimento “di classe”. Riferimento che non è ideologico, ma molto concreto. Una volta avevo chiesto a Bauman le ragioni della crisi della sinistra in Occidente (in Occidente, e cioè da quelle parti del mondo dove il mito del bolscevismo, a differenza dell’Italia, non era mai stato fortissimo, e la caduta del Muro di Berlino è stata vissuta come liberazione e non lutto). Il sociologo polacco mi rispose da sociologo: la sinistra è in crisi perché non ci sono più i modi di vita della classe operaia, i quartieri, i punti di aggregazione, la solidarietà che deriva dal fatto di lavorare e vivere insieme.
Chiudo la parentesi. Ecco, nella società di massa anche la politica era diventata una merce da offrire alla vasta platea di consumatori. Mancato il riferimento di classe (insisto, non ideologico, ma dovuto all’esperienza di vita), vinceva l’attrazione dell’imballaggio, l’abilità del pubblicitario di rendere il candidato o il partito attraente, più tardi (con la crisi dell’economia) il carisma vero o costruito del leader. Carisma comunque costruito su meccanismi simili alle campagne pubblicitarie e non sull’epifania della potenza (come era invece il caso negli anni Venti o Trenta in tutta Europa). Derivazione di questo tipo di narrazione è stata la formula dei talk show in televisione, a loro volta derivata dai duelli tv fra i candidati presidenti negli States. Vince chi usa meno subordinate. Quanto sopra non è un’elegia dei bei tempi andati, di comizi di piazza e manifesti sui muri. È solo un tentativo di capire (e forse di riflettere assieme ad altri) su quello che ci è successo e sul futuro.
Voglio dire: ho l’impressione che la pandemia sia una chance. E che quello che sbrigativamente possiamo chiamare “il capitale”, ma che è un insieme di forze e spinte contraddittorie, stia avvertendo quanto, semplicemente, sia in gioco l’avvenire del Pianeta. A pensarci bene, Greta Thunberg, o meglio la sua popolarità, era un’avvisaglia che qualcosa, nella percezione comune del mondo, in Occidente, stesse cambiando. La pandemia ha accelerato questo processo. Ma lo ha fatto in una maniera strana: il progresso non è più criticato in quanto tale. Anzi, i vaccini stanno ripristinando la nostra fede e fiducia nella scienza. Il bisogno di finanziare la ripresa e di coinvolgere lo Stato sta mettendo in questione l’ideologia del neoliberalismo e la sua fede nei mercati come regolatori della vita. Insomma, si stanno creando (forse) le fondamenta di un mondo del dopo, del dopo la pandemia, del ripensamento dei modelli di vita e dello sviluppo. In questo senso è tornata la politica. Politica come capacità di decidere, di scegliere, di pensare a un futuro. Non è tempo dei consulenti né dei demagoghi. E forse neanche di chi cerca troppe mediazioni. (Ogni riferimento all’ascesa di Biden e Draghi è voluto e non causale).
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