È in Francia, la nazione occidentale in cui la società era più razionalmente, minuziosamente organizzata, che nasce la sociologia, una scienza nuova, una scienza moderna. Il suo oggetto non è infatti la società in generale, che in qualche forma e misura è sempre esistita, ma la società moderna. Perciò la nuova scienza doveva essere a sua volta una scienza moderna, dotata di un metodo scientificamente adeguato ai tempi: il metodo delle scienze naturali.
Pur non essendo un oggetto naturale come la crosta terrestre e l’atmosfera, il regno animale o vegetale, la società, che in passato e per secoli venne considerata dal punto di vista del potere statale e delle sue leggi, o degli ideali religiosi e morali, ora sembrava un organismo in un certo senso biologico. Questa impressione, questa idea di una società biologica, la si trova in un grande romanziere realista come Balzac, da cui lo stesso Marx disse di avere imparato molto, e più tardi è non meno evidente in Proust.
La nascita della sociologia scienza naturale viene convenzionalmente identificata con la pubblicazione del Corso di filosofia positiva del francese Auguste Comte fra il 1830 e il 1842, anni nei quali Balzac pubblicava i suoi romanzi e in cui nasceva il Positivismo, una filosofia che si era data come scopo quello di imparare tutto il possibile dalle scienze della natura. Comte tuttavia non ha mai goduto di molta considerazione neppure fra i sociologi. Marx per disprezzo lo ignorava e a metà Novecento un sociologo come l’americano Charles W. Mills confessò che quasi non riusciva a leggerlo e che in generale i sociologi francesi dicevano in modo più superficiale e generico quello che, meno brillantemente ma con maggiore profondità, dicevano quelli inglesi e tedeschi.
Tedesco era Max Weber, nato a Erfurt nel 1864 e morto di “spagnola” a Monaco di Baviera nel 1920, quando gran parte della sua opera era ancora inedita. Un’opera che è tuttora considerata centrale nella storia della sociologia per vastità, varietà e rigore metodologico. Studioso di storia economica e giuridica, Weber condusse ricerche sulle condizioni dei contadini, sulla “psicofisica” del lavoro industriale, sulla formazione delle città, sull’etica economica delle grandi religioni e sul sistema politico tedesco. I temi per i quali è più noto sono l’oggettività conoscitiva delle scienze sociali, il ruolo della burocrazia nel capitalismo moderno e la distinzione fra diversi tipi di potere. Come studioso, Weber ritiene, o sceglie di ritenere, che sia possibile una scienza sociale “non valutativa”, cioè svincolata da giudizi di valore. Posizione moralistica, in un certo senso ascetica, ma anche inevitabilmente ambigua e poco sostenibile. Quanto al suo contrasto con Marx, nel cui pensiero il giudizio politico e lo studio sociale sono inseparabili, Weber assegna una centralità storica al ruolo della burocrazia piuttosto che alla lotta di classe. L’evoluzione, la crescita organizzativa e la razionalizzazione della vita sociale si fonda, nella prospettiva weberiana, sulla prassi burocratica, tanto nello Stato che nell’economia, nelle istituzioni pubbliche e nelle imprese private.
Politicamente profetico è stato Marx per quello che è avvenuto storicamente da metà Ottocento a metà Novecento; non meno preveggente è stata la tesi di Weber a proposito di organizzazione burocratica necessaria allo sviluppo del capitalismo e del suo dominio capillare in tutti gli ambiti dell’agire e del controllo sociale. Gli stessi partiti comunisti e i regimi rivoluzionari da essi instaurati e diretti, devono la loro efficienza pratica e la loro involuzione dittatoriale e “totalitaria” all’onnipresenza di prassi burocratizzate. È un caso lampante di lotta di classe prima governata e poi politicamente soffocata dalla burocrazia.
Scrive Weber:
La struttura burocratica procede di pari passo con la concentrazione dei mezzi oggettivi di impresa nelle mani di chi detiene il potere. Questo avviene tipicamente nello sviluppo delle imprese capitalistiche private, che trovano in tale struttura burocratica la loro caratteristica essenziale. Cosa che tuttavia avviene anche nelle organizzazioni pubbliche.
L’organizzazione burocratica è di norma arrivata al potere sulla base di un livellamento, almeno relativo, delle differenze economiche e sociali. In particolare essa è un inevitabile fenomeno collaterale della moderna democrazia di massa, in antitesi alla autoamministrazione democratica delle piccole unità omogenee; il suo principio caratteristico è infatti in primo luogo una conseguenza del legame astrattamente regolato dall’esercizio del potere [...]. La burocratizzazione è il mezzo specifico per trasformare un “agire di comunità” in un “agire sociale” ordinato razionalmente. Come strumento che associa rapporti di potere, è stata ed è un potente mezzo di prim’ordine per chi dispone dell’apparato burocratico.
(Economia e società, 1922, postumo,
Edizioni di Comunità, 1961, p. 296)
La burocrazia ha così ingabbiato presto i due grandi nemici storici: liberalismo e socialismo, economia del libero mercato ed economia pianificata e centralizzata. Se poi si considerano i tre tipi di potere teorizzati da Weber, quando storicamente viene superato il potere tradizionale (che si autolegittima attraverso indiscutibili gerarchie ereditarie) e gli succedono il potere carismatico e il potere legale, allora la macchina burocratica finisce per dominare perché funziona secondo regole di “razionalità rispetto allo scopo” da raggiungere. Lo si è visto e lo si vede tanto in regimi liberal-democratici che in regimi autoritari e dispotici. Lo scopo finale e concreto si fa sempre meno chiaro per il fatto che lo scopo immediato da raggiungere è autoreferenziale (la correttezza burocratica come valore in sé) ed è l’autoperpetuazione del controllo per il controllo, quali che siano le conseguenze, mentre la realtà sociale e privata dei singoli è nulla, viene ridotta a nulla (cosa che ha ispirato l’atmosfera da incubo caratteristica della narrativa di Kafka).
È così che le razionalizzazioni organizzative assorbono e neutralizzano il conflitto e la critica, rendendo irrilevanti o impotenti i valori e i principi razionali alternativi alle pratiche sociali formalmente codificate.
La burocrazia è rappresentata da funzionari professionali incatenati alla loro attività specializzata e spersonalizzata. Il funzionario inserito nel meccanismo burocratico si sente al sicuro e permette all’apparato gerarchico di controllo di perpetuarsi perpetuando allo stesso tempo il potere che viene esercitato dall’alto in basso. La sospensione dell’agire burocratico appare perciò sempre più un’utopia, poiché espone o sembra esporre l’ordine sociale al caos antisociale, cosicché ogni cambiamento viene assimilato a una minaccia dell’ordine costituito.
Nella produzione industriale, nel commercio, nelle amministrazioni statali, nelle aziende private, nella scuola, nelle università, nella ricerca scientifica, nel patrimonio culturale e nelle arti, quella che a Weber sembrò una gabbia metallica che razionalizza la vita sociale, con il tempo è divenuta più elastica e in apparenza accettabile, mentre sempre più spesso la sua ipotetica razionalità si è inquinata di irrazionalità. D’altra parte si tratta di svantaggi che i singoli hanno imparato a giudicare inevitabili, poiché fuori di quelle norme intravedono un vuoto sociale senza vita, né comfort, né sicurezza. È quella che Herbert Marcuse, all’inizio degli anni Sessanta, definì “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà”. Weber comunque si rendeva conto che alla razionalizzazione burocratica si poteva contrapporre l’idea di una libertà esemplificata da atti anarchici secondo la teoria antiautoritaria e antistatalista di Bakunin, da tempo diffusa nel movimento operaio e in alcune avanguardie culturali. La sua risposta è quella di un borghese pessimista, ma non è priva di realismo:
L’ingenua concezione del bakuninismo, di poter annientare mediante la distruzione degli atti la base dei “diritti acquisiti e il potere”, dimentica che la disposizione umana a osservare le norme e i regolamenti abituali continua a esistere indipendentemente dagli atti regolamentari. Ogni riordinamento di truppe sconfitte e disperse, e anche ogni restaurazione di un ordinamento amministrativo distrutto da rivolte, dal panico o da altre catastrofi, si realizza mediante un appello a quella disposizione inculcata, da una parte nei funzionari e dall’altra in chi è dominato, a inserirsi con obbedienza in quegli ordinamenti. L’appello, se ha successo, fa semplicemente scattare di nuovo il funzionamento del meccanismo distrutto [...]. Un sistema di funzionari ordinato razionalmente continua, quando il nemico occupa un territorio, a funzionare in modo inappuntabile nelle sue mani con il semplice cambiamento degli organi supremi, dato che è interesse di tutti i partecipanti che questo avvenga.
(ibid, p. 297)
Weber ha dalla sua la paura umana del disordine e dell’incertezza, nonché la forza delle abitudini sociali. Inoltre la società, in quanto società capitalistica moderna, organizzata e razionale, risponde secondo Weber a una tipologia che risulta insuperabile anche in seguito a crisi catastrofiche di tipo economico, politico, sociale, naturale, bellico. Una volta che lo sviluppo economico e l’accumulo di ricchezza si sono imposti, la stessa idea di una razionalità per il raggiungimento di tali scopi appare irreversibile, come una necessità sociale a cui è impossibile rinunciare. Tanto i valori morali nuovi che quelli di origine tradizionalmente religiosa, cedono alla moderna “razionalizzazione intellettualistica operata dalla scienza e dalla tecnica, che dalla scienza dipende”.
Sembra proprio che l’ascetica rinuncia dello scienziato Weber a coinvolgere giudizi di valore nella conoscenza sociale, l’abbia portato all’impossibilità intellettuale di giudicare una società al di là della razionalità costituita che le è propria.
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