Ci si infatuò dei difetti personali del genio, dimenticando il meglio, la cosa che valeva di più. I geni erano stati spesso distratti, stravaganti, disordinati, superbi, troppo timidi, intrattabili? Bastava sentirsi intrattabili, superbi, disordinati e distratti per credersi veri e propri poeti. In realtà, per essere poeti non basta il carattere: bisogna scrivere buone o indimenticabili poesie, mostrando un’intelligenza e un’abilità che renda sorprendente, per complicazione o per semplicità, l’uso delle parole.
Anticamente i poeti erano dei “sapienti”, qualcosa a metà strada fra il profeta e lo scienziato. Tali sono stati considerati e erano di fatto Omero, Sofocle, Virgilio, Dante, Shakespeare... Più tardi è arrivata la modernità con i suoi particolari guai: anzitutto le estremizzazioni romantiche della figura del genio, la personalizzazione della poesia che ha cominciato a orientare l’attenzione più su chi scrive che sulla poesia scritta. Non sono state un rimedio neppure le teorie linguistiche del testo poetico sviluppatesi nel Novecento, secondo le quali la poesia è un insieme di “artifici” o “procedimenti” specificamente poetici del linguaggio. La presenza nel testo di tali procedimenti e artifici stabiliti in teoria sembrava essere di per sé una garanzia “scientifica” di qualità poetica.
In realtà il mito del poeta come personaggio tipicamente anomalo si è perpetuato. Poeta è chi si comporta da poeta, vive da poeta, appare come poeta, fa il possibile per essere visto come poeta; si sente e si crede tale, ci tiene al riconoscimento pubblico indipendentemente dal valore della sua opera scritta. Nella beat generation americana il mito è rinato. Come effetto collaterale negativo di questo mito e di questa aureola pubblica si è verificato il passaggio dal poeta-genio in quanto intelligente e grande intellettuale, al poeta-genio in quanto carattere proverbialmente anarchico, magari deformato e borderline o semipazzo o illuminato o anche, perché no, privo di senso comune fino a un certo grado di ottusità; infine preferibilmente distruttivo e autodistruttivo in quanto invasato da una ininterrotta creatività.
Oggi la poesia è minacciata anche dal contrario, e si vede nei testi. Si è diffusa una medietà o mediocrità di tipo universitario, da seminario didattico, da scuola di creative writing: e il poeta si presenta come un individuo medio che vive non di droghe “da sballo” quanto di anfetamine e psicofarmaci normalizzanti di uso diffuso.
Droghe di vario tipo hanno accompagnato, è vero, la nascita della poesia moderna, da Coleridge a Baudelaire, i quali però sono stati, oltreché originalissimi poeti, anche grandi critici letterari e sociali. Nel Novecento il prototipo più puro del poeta intelligente è stato Paul Valéry, nel quale il culto dell’intelligenza, della consapevolezza e dell’autoanalisi è arrivato a mettere in crisi, perfino a sospendere per un paio di decenni, la produttività poetica.
L’intelligenza di Valéry, nella sua purezza ascetica e cartesiana, era molto caratteristica dell’intellettualismo francese. In Spagna, il suo coetaneo Antonio Machado mostra un’intelligenza di opposta qualità: umile, ironica e malinconica, tanto limpida quanto attratta da ciò che è comune e semplice, da contemplare quietamente. Anche Machado è un poeta prosatore. Ma diversamente da Valéry, che distingue più nettamente poesia e prosa, Machado le fa fluire l’una nell’altra. In due prose del 1924 “Sulla poesia” Machado parla dell’intelligenza poetica come superamento delle antinomie logiche attraverso una “fede cordiale”, una “elaborazione cordiale”, in una “atmosfera cordiale” in cui l’io incontra il “mondo degli altri io” (Tutte le poesie e prose scelte, Meridiani Mondadori, a cura di Giovanni Caravaggi, pp. 1135-37). Una posizione, questa, opposta al barocco a lungo dominante nella tradizione spagnola.
Per elaborare pensieri Machado ha bisogno di uscire da sé, e infatti inventa personaggi immaginari attraverso cui esprimersi. Il più importante di questi alter-ego è Juan de Mairena e le prose che Machado gli attribui ...[continua]
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