I dati censuari raccontano infatti di un lieve incremento totale e della contrazione della popolazione attiva a favore di quella anziana, nata durante i baby boom degli anni Cinquanta e Sessanta, e di quella fra il 1982 e il 2000, la stessa che ha concorso per il 27% alla crescita del prodotto interno lordo del paese. Benché l’invecchiamento della popolazione e le misure per contenerlo siano fra i principali argomenti politici del Regno di Mezzo, altri due indicatori sono significativi: l’eccezionale numero di migranti interni -aumentati del 70% nel decennio e pari a un quarto dell’intera popolazione– e il rapporto tra i sessi alla nascita che, pur essendo in sostanziale calo rispetto al 2010, supera ancora e di gran lunga la soglia della normalità.
Fra l’inizio degli anni Novanta e la fine dello scorso decennio, la Cina ha goduto del cosiddetto bonus o dividendo demografico caratterizzato dalla presenza di una elevata percentuale di persone in età lavorativa rispetto a quella inattiva. La struttura demografica di quegli anni ha concorso a creare le condizioni per una crescita economica di intensità e lunghezza senza precedenti.
Il censimento racconta, tuttavia, che il periodo d’oro sta finendo: la popolazione in età lavorativa nel 2020 è diminuita del 7% rispetto al 2010 a fronte di un pari aumento di quella maggiore di sessant’anni.
Il venire meno del vantaggio demografico e l’invecchiamento della popolazione è fonte di preoccupazione per il governo, chiamato anche al mantenimento per nulla scontato del benessere raggiunto dalla popolazione anziana. Al proposito val la pena di citare un rapporto pubblicato nel 2019 dalla prestigiosa Accademia Cinese delle Scienze secondo cui il fondo pensionistico statale si esaurirà entro il 2035, anno in cui si stima una popolazione maggiore di sessant’anni di oltre trecento milioni.
Più in generale, l’invecchiamento sfida il mantenimento delle condizioni di vita dignitose degli anziani, i più vulnerabili, una popolazione lasciata in gran parte nelle zone spopolate dalla emigrazione o non autosufficiente, che dispone di poche risorse e che non può contare, come avveniva un tempo, sulla rete familiare ormai polverizzata. Tutto questo è ben noto al governo, che ha avviato numerosi programmi di sostegno al benessere sociale, come i piani pensionistici e assicurativi speciali, o i riconoscimenti economici elargiti ai nuclei composti da tre generazioni, nel tentativo di adattare un ideale culturale tradizionale -quello delle cinque generazioni- alla società contemporanea. A queste iniziative di mitigazione del disagio sociale, se ne aggiungono altre due più universali e su larga scala: il graduale aumento dell’età pensionabile, attualmente posta a sessant’anni, un provvedimento molto urgente dato l’imminente arrivo delle generazioni del baby boom successive alla carestia del 1961, e la politica dei due figli adottata nel 2015, in sostituzione di quella del figlio unico. La prima riforma è ancora in discussione e fonte di tensioni, la seconda ha dato modesti risultati ed è stata rimpiazzata proprio in questi giorni da quella dei tre figli.
La trappola della fecondità
Proprio all’indomani della pubblicazione dei principali risultati del censimento, Ning Jizhe, direttore dell’ufficio nazionale di statistica, ha dichiarato che nel 2020 sono nati dodici milioni di bambini e bambine, il numero più basso mai registrato in Cina se si escludono gli 11,8 milioni di nascite avvenute durante la Carestia del 1961. Questo risultato, preceduto da riduzioni anche negli anni precedenti, in parte è imputabile all’esiguità delle generazioni oggi in età riproduttiva via via dimezzatesi in conseguenza della politica del figlio unico. La trappola demografica in cui è finito il paese è destinata ad accentuarsi: si prevede infatti la riduzione del 40% del numero di donne in età feconda alla fine del decennio in corso, ciò che implicherà la riduzione delle nascite anche a fecondità inv ...[continua]
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