Il consumo di merci, gli alti consumi come “status symbol”, come segno di distinzione e superiorità sociale, e infine il cosiddetto “consumismo” di massa hanno occupato da tempo i sociologi e i moralisti sociali. Se i cittadini “consumatori” non comprano e non consumano alacremente merci di vario tipo con soddisfazione e sentendo che la qualità e l’immagine della propria vita migliorano, ecco che l’economia e la produzione industriale ne risentono, languono. Ma nella storia classica della sociologia, l’autore che ha fatto del “consumo vistoso” il centro della propria analisi è stato l’americano Thorstein Veblen, nato nel 1857 nello stato di Wisconsin da una famiglia di origine norvegese. I suoi nonni erano stati piccoli proprietari terrieri costretti da problemi sia economici che legali a emigrare in America. Non è escluso che la sensibilità rigoristica luterana della sua famiglia abbia avuto un certo ruolo nelle ricerche sociologiche di Veblen, il maggiore dei filosofi sociali americani, reso famoso soprattutto da un’opera pubblicata nel 1899, La teoria della classe agiata.
Il sociologo americano degli anni Cinquanta più influenzato dal marxismo, Charles Wright Mills, nella sua prefazione a quell’opera cominciò dicendo: “Thorstein Veblen è il miglior critico dell’America che l’America abbia prodotto. Il suo linguaggio fa parte del vocabolario di ogni americano colto; le sue opere rappresentano il più notevole contributo che un americano abbia dato agli studi americani; il suo stile, che ne fa l’unico scrittore comico tra gli studiosi moderni di scienze sociali, si è da tempo affermato nella società da lui vivisezionata. Perfino la classe agiata, che ormai legge Veblen da più di una generazione, parla un po’ come lui”. E poco oltre: “Veblen è ancora letto, non solo perché la sua analisi è ancora plausibile, ma perché il suo stile la rende tale, anche quando l’analisi in se stessa è poco persuasiva. Lo stile non è esattamente il punto forte della scienza sociale americana; infatti la maggior parte dei sociologi evita lo stile, proprio come alcuni storici lo coltivano. E, sotto questo aspetto, Veblen è più uno studioso di storia che di scienze sociali” (in La teoria della classe agiata, Einaudi 1971, p. 7).
All’origine della teoria di Veblen c’è l’idea che “l’istituzione della proprietà privata” come “lotta fra uomini per il possesso di beni” diventa presto, nello sviluppo della produzione, “qualcosa di più apprezzabile che non la pura sussistenza”. Esiste un ulteriore incentivo, anzi un incentivo più primitivo, all’accumulo di ricchezza: “Il possesso della ricchezza conferisce onore” e crea “una distinzione antagonistica”. Non si tratta più di consumo reale di merci: si tratta piuttosto di “emulazione” e di puro “conforto materiale”. Anche l’appropriazione, l’accumulo di ricchezza in vista della sussistenza e del conforto materiale contengono una motivazione immateriale, quella che permette di esibire una “superiorità” sociale, un’aura di gloria.
La critica di Veblen alla classe agiata è una critica all’estetica dell’opulenza e del “consumo vistoso”, critica condotta dal punto di vista di un’etica dell’operosità industriosa. La classe lavoratrice e la classe media sembrano diventare in Veblen i giudici della classe alta, o élite del potere fini a se stesse. Nel capitolo del suo libro dedicato all’“agiatezza vistosa” Veblen scrive:
“Per accattivarsi e conservare la stima degli uomini non basta possedere semplicemente ricchezza o potenza. Queste devono essere messe in evidenza, poiché la stima è concessa solo di fronte all’evidenza […]. L’antica distinzione teoretica fra ciò che è vile e ciò che è onorevole nel modo di vivere di un individuo, detiene anche al giorno d’oggi moltissimo della sua antica forza. Tanto che sono pochi gli uomini della classe superiore che non si lascino prendere da una istintiva ripugnanza per le forme volgari di lavoro [...]. Tutte le persone di gusto raffinato avvertono che una certa contaminazione spirituale è inseparabile da certe incombenze che sono convenzionalmente richieste ai domestici […] Esse sono considerate incompatibili con una vita vissuta a un livello spirituale di ‘alto sentire’. Dai tempi dei filosofi greci fino a oggi, un certo grado di comodità e di esenzione dal contatto con quei procedimenti tecnici che servono a fini immediati e quotidiani della vita umana, è sempre stato riconosciuto dagli uomini di pensiero come un requisito preliminare per una vita degna o bella o semplicemente decente (op. cit., pp. 32-33)”.
Al ricco finanziere e anche all’erudito umanista che coltiva gli alti ideali ereditati dallo studio dei classici, Veblen contrappone l’ingegnere industriale, il tecnico e il lavoratore manuale. L’utilità economico-sociale e l’operosità sono per lui valori reali se confrontati con la formale e speciosa onorabilità guadagnata attraverso l’esibizione pubblica di consumo, o meglio spreco, di beni materiali e di tempo.
Come moralista sociale e critico culturale Veblen usa valori e strumenti del tutto diversi da quelli che nella modernità borghese, industriale e capitalistica hanno spinto filosofi, artisti e umanisti contro lo sviluppo produttivo e l’accumulo di denaro. In questo, Veblen è uno schietto moralista americano, un moralista democratico dotato di un fiuto speciale nel colpire ogni forma di prestigio che abbia caratteristiche di ascendenza feudale e aristocratica. In un paese nel quale i vizi europei non devono più sussistere e in cui l’ideologia nazionale promette alla working class di diventare middle class lo snobismo esibito dai ricchi non può essere tollerato e la sociologia di Veblen lo satireggia, lo mette in caricatura per la sua irresponsabile vacuità e il suo “nocivo anacronismo”. Si potrebbe dire che Veblen, avendo certamente legami con Marx, non ne abbia invece nessuno con Nietzsche e il suo culto antidemocratico di ciò che distingue gli uomini superiori da quelli inferiori, i signori che dominano dai servi che eseguono e ubbidiscono.
Il “consumo vistoso” non produttivo, che procura una formale, esibita e vuota onorabilità e un prestigio estetico che disprezza la proba dedizione all’utile, è per Veblen un vizio del quale una sana società moderna deve liberarsi. Coloro che di recente si sono vistosamente schierati in difesa della “utilità dell’inutile” non avrebbero certo avuto Veblen dalla loro parte. In effetti si è trattato di una polemica di tipo retorico il cui scopo è puramente, culturalmente snobistico. L’esibizionismo erudito è diventato soprattutto una maschera di finti umanisti che si guardano bene dal prendere sul serio e praticare le virtù dell’autoperfezionamento che caratterizzò i classici antichi e l’umanesimo storico.
È questo il tema culturale su cui Veblen si concentra nel capitolo conclusivo della sua Teoria della classe agiata. Il suo attacco agli studi che chiamiamo umanistici e classici può apparire scandalosamente rozzo ai nostri occhi e a quelli di ogni europeo colto. Sotto il titolo “Gli studi superiori come espressione della civiltà finanziaria”, più che attaccare quegli studi, per i loro contenuti reali, Veblen critica la loro funzione ornamentale come “predilezioni della classe agiata” e simboli della “dignità finanziaria” del possesso di ricchezza, della superiorità sociale che quel possesso comporta. È la classe agiata che ha dunque influenzato e dato un diverso senso a questi “studi superiori”, invece che esserne influenzata.
Nelle società primitive e antiche “gran parte del sapere che si acquisiva sotto l’insegnamento sacerdotale era un sapere concernente i riti e le cerimonie”, un mettersi in contatto scrupolosamente corretto e positivo con le “potenze soprannaturali”. Dice Veblen: “L’elemento arcano del sapere è ancora, come fu in tutti i tempi, un elemento assai seducente ed efficace al fine di impressionare, o anche ingannare, l’ignorante […]. La cultura, dunque, incominciò con l’essere in un certo senso un sottoprodotto della classe agiata sacerdotale”.
Ogni volta che la cultura assume un carattere esclusivo, esoterico, inaccessibile, si presenta come una possibile funzione distintiva e difensiva dei poteri sociali della classe agiata. La cultura si mette così al servizio della ricchezza accumulata dotandola simbolicamente di valori magici quasi soprannaturali, o più precisamente soprasociali:
“La grandissima tenacia con cui questi apparati rituali persistono attraverso il più recente corso dello sviluppo economico, è evidente a chiunque voglia riflettere su ciò che è stata la storia della cultura nella nostra civiltà. Ancora oggi nelle abitudini delle comunità colte si ritrovano cose come il berretto e la cappa, le cerimonie di immatricolazione, di iniziazione e di laurea, il conferimento di diplomi, di distintivi e di prerogative, in un modo che fa pensare a una specie di dotta successione apostolica […]. Questi caratteri ritualistici del sistema pedagogico di oggi e del recente passato, si può dire che abbiano preso un posto principalmente nelle istituzioni e nei gradi superiori di cultura, liberali e classici, piuttosto che nei rami inferiori del sistema, quelli tecnici o pratici”.
Veblen critica la cultura come apparato rituale di promozione sociale e prestigio ed erudizione umanistica esibita come maschera che il potere usa per intimidire ed escludere, nonché per creare o restaurare l’idea di ereditarietà sociale. La ricchezza si mescola e si confonde così con il valore culturale. Si tratta, secondo Veblen, di “anacronismi nocivi”, non certo di potenziale critico della tradizione culturale. La classe agiata nobilita culturalmente, formalmente, i poteri della ricchezza accumulata. Non si tratta dunque di vera “disciplina dei classici”, ma della sua aureola, del suo aroma.
Veblen criticava alla fine dell’Ottocento lo stile di vita dei nuovi ricchi americani e la loro tendenza a riprodurre nel “nuovo mondo” un’aristocrazia predatoria, finanziaria, improduttiva, esibizionistica e oziosa, contro l’etica puritana del lavoro. Ma alla fine dell’Ottocento erano ancora di là da venire l’industria culturale, la società opulenta e il consumismo di massa del neocapitalismo emerso dopo la crisi della Seconda guerra mondiale. I consumi e gli sprechi come “status symbol” avrebbero allora investito la classe lavoratrice anche in Europa, trasformandola in una molto più estesa e quasi onnicomprensiva “classe media” culturale, attratta a sua volta dal consumo vistoso e dal luccichio delle merci. La cultura dell’antagonismo sociale e politico fondato sulla coscienza di classe operaia era offuscata dal sogno a occhi aperti di essere tutti virtualmente ricchi, eleganti, agiati. Almeno un giorno alla settimana o un mese l’anno.