L’omosessualità è stata depenalizzata in Polonia nell’anno 1932. Il diritto di eleggere deputati al Parlamento e di farsi eleggere, le donne polacche l’hanno avuto a partire dal novembre 1918. E per passare a cose più futili: nel 1939, in un film girato poco prima della fine di un mondo, un’attrice e ballerina assai popolare, sempre in Polonia, Loda Halama, è inquadrata mentre danza sopra una coppa di champagne, mostrando le gambe, quasi ad anticipare Rita Hayworth in “Gilda” (1946). Sono tre dati, non omogenei, messi un po’ alla rinfusa, e ne potrei aggiungere tanti altri (le donne svedesi che negli anni Sessanta venivano in Polonia per interrompere la gravidanza) per dire una cosa: la narrazione che sta prendendo piede sulla presunta diversità e arretratezza di quelli che ancora qualcuno si ostina a chiamare i “paesi dell’Est”, non sempre corrisponde alla verità storica.
In queste settimane l’Unione europea, le sue istituzioni e i leader (a partire da Ursula von der Leyen) sembrano aver deciso di arginare le istanze omofobe così come i tentativi di mettere in questione gli stessi principi dello Stato di diritto in Polonia e in Ungheria. L’impressione è quella di un ceto politico (europeo) che finalmente si è reso conto quanto in alcuni luoghi del nostro continente (fra Varsavia e Budapest, in sostanza) si stia giocando anche il futuro di Berlino e Parigi. Ossia, all’autoritarismo, come ideologia e prassi, si cerca ora di reagire. E lo si fa perché la demagogia, la retorica nazionalista, il richiamo identitario ai valori presentati come fedeli alla tradizione e alla natura (una serie di semplificazioni che operano i sovranisti e i populisti), sono facilmente ripetibili ovunque. Pure a Berlino o Parigi, appunto. Possiamo anche dirlo in una maniera brutale: a partire dalla modernità, con le sue antinomie e con la sensazione comune e diffusa di quanto sia difficile e pericoloso vivere in un mondo che cambia in continuazione, la tentazione di sacrificare elementi di libertà in cambio di una promessa di sicurezza (anche psicologica) è forte. Tutti noi, spesso, sentiamo il bisogno di punti fermi riguardo la nostra identità, il nostro posto nel mondo, e di qualcuno che ci sappia guidare per passare indenni dalle molte insidie di quella che spesso percepiamo come una libertà che diventa caos. Poi, per fortuna, nelle democrazie in genere prevale la convinzione che senza la libertà non c’è neanche sicurezza, ma questa convinzione non è scontata, non è data una volta per tutte, e va coltivata, anche attraverso la consapevolezza di quanto la paura del nuovo possa portare a esiti disastrosi.
Tuttavia, qualche volta, nei commenti italiani prevale l’idea di un Est appunto diverso. Si cerca di spiegare la deriva autoritaria in Polonia o in Ungheria con il passato comunista, talvolta con la mancanza di solide tradizioni costituzionali, con il fatto che mai quei paesi sono stati democratici, oppure (per quanto riguarda le questioni dell’aborto e dei diritti delle persone Lgbt) con il sovrapporsi (in Polonia) dell’identità cattolica e quella nazionale. Sono spiegazioni non prive di elementi veri ma che omettono dati storici, di costume e via elencando. E per tornare all’inizio, a guardare i film polacchi degli anni Trenta (sto parlando dell’immaginario quindi) colpisce la libertà delle donne, il modo in cui le protagoniste agiscono e come vengono rappresentate. Non si ha insomma la sensazione di un paese più arretrato nei costumi rispetto ad altri luoghi in Europa.
Voglio dire una cosa semplice. Ho l’impressione che parlare dell’eccezionalità o della diversità di quei paesi sia un modo per eludere il problema. Non è pigrizia intellettuale, ma il bisogno di essere rassicurati, di ribadire che mai un Orbán o un Kaczynski potranno prendere il potere in Italia (o in Francia o in Germania).
Le origini del discorso sulla arretratezza dell’Est risalgono a una certa retorica comunista, italiana, non ufficiale, ma presente nelle discussioni, conversazioni, nella propaganda insomma. Il Pci, notoriamente, in Italia difendeva la democrazia, il rispetto delle regole del gioco, non elogiava la dittatura del proletariato e simili. Era insomma un partito di sinistra, per il quale l’unica via verso il potere non poteva essere altra che quella parlamentare. Ma allora, come si conciliava il rispetto delle “regole borghesi”, oggi diremmo liberali, con una certa simpatia nei confronti dei regimi dei paesi dell’Europa centrale? E parlo di una certa, limitata e moderata simpatia, non di adesione. Si spiegava, spesso, con ragioni geopolitiche (che sono ovvie), ma anche appunto con il fatto che quei popoli non erano proprio maturi per esercitare una vera democrazia. Mancavano, secondo quello schema, le tradizioni di libertà. Ripeto, non sto citando discorsi e tantomeno documenti ufficiali, ma conversazioni durante le feste dell’Unità o discussioni fra amici. Sto parlando del senso comune.
Quell’idea è in qualche modo sopravvissuta alla caduta del Muro. Non saprei dire per quale motivo, né voglio azzardare ipotesi. Se non una, innocua, da straniero. In Italia, il campanilismo fa sì che tutti siano in qualche modo “diversi”, basta spostarsi di qualche chilometro per constatarlo. Quel modo di pensare non ha niente a che fare con il razzismo, è semplicemente una maniera per rafforzare la propria identità e l’attaccamento al proprio cibo, paesaggio, storia. Ed è anche (da straniero) uno dei tratti più affascinanti di questo paese.
Però, c’è anche un altro lato delle questione, che riguarda non il senso comune ma la responsabilità degli intellettuali. Eccolo: fa comodo pensare che l’Altro sia diverso e che i problemi che l’Altro affronta siano legati alla sua diversità, quindi non toccano a noi, se non come osservatori. E così la Polonia è “cattolicissima”, l’Ungheria non sa cosa sia la libertà; e soprattutto diventa decisivo il periodo del potere comunista (poco più di quarant’anni) senza tenere conto che forse anche i trentadue anni successivi anni di capitalismo possano aver avuto una certa influenza sul modo di pensare e di sentire delle persone.
E se vogliamo, la diversità esiste: si tratta di paesi che hanno cambiato più volte i confini e la composizione demografica, ma non è quella la principale causa dell’ascesa al potere dei populisti. I nazionalisti hanno promesso di risolvere i problemi complessi con estreme semplificazioni. Esattamente come fanno i populisti in Francia, in Olanda o in Italia. Aggiungo: l’anno prossimo si vota in Ungheria e nel 2023 in Polonia. Dai sondaggi, non sulle intenzioni di voto, ma sulla volontà di rimanere nell’Unione europea (Bruxelles è spesso indicata dai populisti polacchi e ungheresi come avversaria e luogo che toglie la sovranità e quindi la libertà), risulta che i popoli in questione sono europeisti, molto di più degli “occidentali”.
Forse sarebbe utile parlare della Polonia e dell’Ungheria come parte dell’Europa anziché sperare (in segreto) che un giorno se ne andranno via e così, in Italia o in Francia, non avremo più problemi.
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