"Dei Quaderni Piacentini, ovvero del prodotto “rivista” come forma e delle condizioni della sua produzione"

Sergio Bologna, docente di Storia del movimento operaio dal ‘66 all’83, ha partecipato a Classe operaia e ai Quaderni Piacentini dal 1963 al 1980. Fondatore e direttore della rivista Primo Maggio, attualmente collabora con la Fondazione di storia sociale del ventesimo secolo di Amburgo.

Che cosa rende i QP così lontani, così fuori dal nostro tempo? La disaffezione degli intellettuali per il marxismo? Ma di marxisti ortodossi non ce n’era manco uno. Di neomarxisti? Bravo chi è capace di definire cos’è il neomarxismo. Forse il marxismo non c’entra per nulla. Più probabile che sia cambiato lo statuto dell’intellettuale (ricordiamo la bella idea di Julien Benda “gli intellettuali non possono creare il Bene ma possono almeno impedire che il Male venga fatto con la coscienza tranquilla”).

1. E’ cambiato in particolare il rapporto tra intellettuali e politica o tra pensiero e politica (tra l’altro la problematicità di questo rapporto sta alla base della sociologia e della storiografia sugli intellettuali, dai ragionamenti di un sociologo come Theodor Geiger negli Anni Trenta alle opere di uno storico di oggi come Michel Winock). Si è estinto quello spazio intermedio dove l’intellettuale poteva muoversi tra critica, utopia e profezia -le tre dimensioni entro le quali agiva la parola di Franco Fortini, per esempio- costruendo in tal modo una piccola agorà dove la politica era presente da spettatore più che da interlocutore o da protagonista. Oggi questa agorà non è più prevista nello spazio urbano della politica, che ha recintato rigidamente il suo perimetro e lo fa controllare da nerovestiti buttafuori testapelata/occhiali neri, un perimetro dove l’intellettuale per entrarvi esibisce tessera di riconoscimento. E il lavoro dell’intellettuale ormai è ridotto a procedura per ottenere questa tessera. Quasi non esistesse più una dinamica di autoformazione, quasi il pensiero non fosse più condizione del suo statuto sociale. Egli può essere solo cooptato, appunto il suo statuto gli viene conferito dalla politica, in una parola: non ha più autonomia.

2. Ma anche la politica non ha più autonomia. Quanto maggiore è la sua “professionalizzazione”, la sua costituzione come casta separata, tanto minore è la sua autonomia dai poteri economici e finanziari. “E’ sempre stato così” -potrebbe dire qualcuno. No, non è sempre stato così. Il ceto politico italiano, in particolare quello democristiano, una sua autonomia ce l’ha avuta, fondata indubbiamente sulla forte articolazione di organizzazioni d’interessi ma ancor più sul suo potere discrezionale nei confronti di un’impresa e di una finanza pubblica, che hanno rappresentato per più di mezzo secolo il 50% della ricchezza prodotta e gestita nel nostro paese. E’ con la Seconda Repubblica, con la sfrenata corsa alle privatizzazioni, che il ceto politico viene spogliato di questi strumenti di potere (che ne consentivano la relativa autonomia) e rimane ostaggio di un potere economico che dispone dei mezzi di legittimazione, cioè della grande stampa quotidiana, che diventa la scena sempre più ristretta dove il teatrino della politica si recita indisturbato. Anche le forze di opposizione subirono lo stesso processo ma a differenza delle forze di governo -che furono costrette a “mollare la presa” dalle inchieste di Mani Pulite- sembrarono “cercare” la dipendenza, sembrarono volersi districare da quel regime di “lacci e lacciuoli” che bene o male la base rappresenta, quel sistema di vincoli rituali che rallenta il passo dei gruppi dirigenti. Il “partito snello” così come “lo stato minimo” appartengono a un’epoca ben precisa della nostra storia, quei fatidici anni 1992/1993 dove si è posto fine a un ordinamento economico che durava da 60 anni e a un ordinamento politico che durava dal dopoguerra1. Il Paese che è nato da quegli anni non è più il paese nato dalla sconfitta del fascismo. Quale Paese? In parte la crisi della Fiat, in parte il caso Parmalat, hanno messo a nudo alcuni suoi connotati.

3. Torniamo agli intellettuali. Per essere tali, dicevamo, il pensiero è superfluo, basta il tesserino di riconoscimento erogato dalla politica. Tuttavia l’intellettuale, come ceto sociale, non solo non è scomparso, anzi ha goduto di un regime di compensazione per la sua rinuncia all’autoformazione e all’autonomia. Si è “specializzato” pure lui, si è costituito in cast ...[continua]

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