“Si dice che Nietzsche, dopo la rottura con Lou Salomè, entrato ormai in una definitiva solitudine, schiacciato ed esaltato a un tempo dalla prospettiva di quest’opera immensa, che doveva portare avanti senza alcun soccorso, passeggiasse la notte sulle montagne che dominano il golfo di Genova e vi accendesse grandi fuochi di foglie e rami che poi guardava consumarsi. Ho spesso pensato a questi fuochi e mi è accaduto di immaginarvi davanti a essi, per metterli alla prova, certi uomini e certe opere. Ebbene la nostra epoca è uno di questi fuochi il cui insostenibile ardore ridurrà senza dubbio molte opere in cenere”.
Queste riflessioni fanno parte della conferenza che lo scrittore francese Albert Camus tenne nell’anfiteatro della città di Uppsala il 14 dicembre 1957 quando gli venne conferito il premio Nobel per la letteratura.
È stato Camus indubbiamente uno straordinario interprete della cultura e della società del ’900. Le sue tensioni esistenziali tra il mito di Sisifo e le assurde modalità del vivere, tra le implacabili ed equilibrate riflessioni, mai piagate da effimeri dogmatismi ideologici, hanno donato agli uomini di diverse generazioni, il senso di un intelligente itinerario nella vita, sempre ricco di amore per la libertà, per la rigorosa ricerca di un mondo solidale e migliore.
Questo straordinario personaggio nato a Mondovi in Algeria il 7 novembre del 1913, dopo Kipling fu il più giovane autore a ottenere il Nobel, prestigioso riconoscimento internazionale. Ma di Camus rimane ostinata la certezza che fosse una persona che sapeva guardare criticamente dentro di sé per avvicinarsi alla realtà che si vuole capire con animo libero e disponibile, con un’attitudine a non pronunciare giudizi moralistici assoluti.
Questa vocazione appare inesauribile nel volume Saremo leggeri. Corrispondenza (1944-1959), ed. Bompiani, nel quale Albert Camus e la sua amata Maria Casarès si scambiano ben 865 lettere, nelle quali si narrano con equilibrio straordinario le onde poetiche di una storia di amore rara e avvincente.
Camus aveva trent’anni, Maria ventuno, si erano conosciuti in casa degli amici parigini Michelle e Zette Leiris, per assistere alla rappresentazione di una commedia di Picasso “Desiderio preso per la coda”. Lei nata in Galizia è figlia dell’ultimo primo ministro della Spagna repubblicana, fuggito a Parigi nel 1936. Era il 6 giugno 1944, giorno dello sbarco in Normandia degli Alleati. Questo primo incontro durò poco: era rientrata in Francia la moglie di Camus. La storia sembrava finita. Ma ancora il 6 giugno (data fatidica!) del 1948 si incontrano in boulevard Saint Germain. Non si lasceranno più. Anche se qualche tempo dopo la moglie Francine Faure, affranta dai tradimenti, cercherà di suicidarsi.
I loro impegni sociali, l’attività di attrice di lei e gli impegni politici di lui navigano nel grande mare di una passione intensa e splendente. Lei gli scrive: “Ci siamo incontrati, ci siamo riconosciuti, ci siamo abbandonati l’uno all’altra, siamo riusciti ad amarci di un amore ardente di cristallo puro, ti rendi conto della nostra felicità e di ciò che ci è stato dato?”. E Camus replica: “Siamo entrambi lucidi, consapevoli, in grado di capire ogni cosa e quindi ogni cosa superare, abbastanza forti da vivere senza illusioni, e legati uno all’altra dai vincoli della terra, dell’intelligenza, del cuore e della carne, tanto che nulla, lo so, nulla può sorprenderci né separarci”.
Le lettere dei due amanti ci fanno scoprire Maria Casarès come grandissima attrice dotata di coraggio e di fragilità. Le sue giornate frenetiche, le rappresentazioni teatrali, le tournee in tutto il mondo insieme ad attori come Gerard Philipe, Serge Reggiani, Jean Vilar. Una donna dotata di vitalità sconcertante che vive in modo intenso felicità e infelicità, che ribadisce con un sospiro: “Credevo di vivere male lontano da te. Ma non è vero. Lontano da te non riesco a vivere affatto”. E Camus: “Resta il sole del nostro amore. Ti amo irrimediabilmente come si ama il mare”.
Marcel Carnè la fa protagonista del film “Les enfantes du Paradis” (considerato uno dei dieci migliori film di sempre), è moglie infelice del mimo Battista (Jean-Louis Barrault) al quale dedica la vita per sostenere il dramma esistenziale di un genio sempre in fuga da se stesso. Uguale devozione Maria dedicherà a Camus che le scrive: “E tu, mia dolce, mia protettrice, mia bella, amore mio adorato, amata davvero amata da quindici anni! Mi manchi, ho l’animo solitario, il cielo di Parigi è deserto. E nello stesso tempo ci sei, mi accompagni, come non mai, con presenza, certezza, calore e sorridi dentro di me”. Camus è impegnato su molti fronti, con vocazione solitaria: scrive veementi parole contro l’aggressione dell’Urss all’Ungheria nel 1956. Si impegna contro il colonialismo, si batte contro una cultura di potere che ha in Caligola l’emblema della follia al governo e che diventerà uno dei drammi più rappresentati in giro per il mondo. Dialogano, discutono, contendono su tutto: Sartre, Pirandello, Gide, Melville, Conrad, Tolstoj, De Sade e critiche al film di Rossellini su San Francesco giullare di Dio. Scrive Maria: “Hai presente quando i monaci si mettono a sfarfallare sull’erba?”.
Curatrice del volume è la figlia Catherine Camus che con zelo ha conservato anche i molti biglietti che il padre inviava all’amata nelle sere dei suoi esordi in teatro. “A ogni opera diventi più grande ai miei occhi. Fortunati coloro che saranno lì e che non dimenticheranno, e io sui tuoi passi silenzioso e fiero di amarti” e ancora: “Il mondo orribile e oscuro: la tua luce”, “Adorazione alla sempre vergine Maria tuo Albert”, “Dopo tanti anni sei sempre la mia ragazzina”, “Come ringrazio la vita per averti incontrata”.
Albert e Maria si amano per se stessi, il loro furore non chiede altro che di essere un “tu” per un “io”, senza caricarlo della responsabilità di fargli da ponte verso valori assoluti o di recarli in dono loro stessi. I due si accettano nella realtà con i loro limiti e i loro difetti. Sono innamorati, ma disincantati, cercano la perseverante idea di un rapporto non effimero: si amano come compagni di vita. Si abbracciano per sentire il dono di anima e corpo. Non vagano mai nell’idea della pura bontà, della pura bellezza, l’amore quotidiano sensuale è valorizzato come percorso alto di complicità lirica. Non mancano piccoli vezzi erotici: ingenui, candidi, mai torbidi, primaverili, la gioia di donarsi valori naturali.
La storia terminò nel gennaio del 1960 in seguito a un tragico incidente d’auto. L’eco in Italia di quella morte fu raccolto da Eugenio Montale che era stato attento alla produzione teatrale di Camus. Eugenio Montale recensì la tragedia “Caligola” con precisione e pacate argomentazioni nel gennaio del 1946 per il quotidiano fiorentino “La Nazione del Popolo”, lodando la regia di Giorgio Strehler e le interpretazioni di Renzo Ricci ed Eva Magni. E nei volumi dei Millenni Mondadori intitolati “Il secondo mestiere” nei quali vengono raccolte le sparse prose montaliane, altri articoli si occupano della produzione filosofica di Camus.
Per uno strano caso del destino quando Camus ottenne il premio Nobel toccò a Montale, il 17 ottobre del 1957, scrivere l’elogio dell’autore francese sulle pagine del “Corriere della Sera”. Si erano conosciuti a Parigi presso l’editore Gallimard nel 1952, ma non erano diventati amici. è lo stesso Montale con una piccola dose di presunzione e una maggiore dose di cattiveria a ricordare il fatto proprio nel contesto dell’articolo esplicativo, ma invidioso del successo internazionale di Camus. “Camus significa camuso, ma nulla di simile si notava nel volto dell’uomo alto, slanciato, timido e nel tempo stesso sicuro di sé, che anni fa mi ricevette in uno sgabuzzino della labirintica sede della casa editrice Gaston Gallimard in rue de Grenelle. Eppure quando informai Camus che io avevo già scritto due lunghi articoli su di lui (qui sul “Corriere”) egli mi disse di non saperne nulla e nemmeno mostrò alcuna curiosità di conoscerli, e io ne dedussi che anche lui, così diverso dagli altri, era un tipico rappresentante di quel sentimento, diciamo così, egemonico che non manca mai nei letterati di Francia, anche quando la loro letteratura mostra le rughe”.
È chiaro che Montale presume molto dalla dimensione effimera di due articoli seppure collocati nella maggiore testata italiana. Ma Camus già nel 1952 veleggiava sui venti dell’eternità. Né oltralpe la fama di Montale godeva di particolari accrediti. E Montale lo pugnala cinque anni dopo con perfide riflessione sulla “grandeur” letteraria e ammuffita dei galletti francesi.
Dispiegato e riavvolto il suo rancore l’articolo di Montale procede con giusto equilibrio cronachistico per concludere con larvata sospensione di giudizio “Giovane d’anni Albert Camus ha nella sua magrezza il profilo di uno scrittore della migliore tradizione moralistica francese. In questo senso ha ragione chi vede in lui un classico: il che può significar qualcosa in tempi di confuse esperienze. Probabilmente Camus non è ancora -come qualcuno afferma- un Pèguy o un Bernanos, ma non gli mancherà il tempo di giustificare il credito che gli ha aperto l’Accademia svedese”. Ma il tempo ha crudeltà che Montale trascurava.
Il 4 gennaio 1960 l’editore Michel Gallimard convince Camus a rientrare a Parigi dalla Provenza in auto. Camus aveva in tasca il biglietto del treno già comprato. Accettò l’invito dell’amico. L’auto a 140 km l’ora si schiantò contro un platano a Villeblevin sulla nazionale Sens-Parigi. Morirono entrambi. Toccò a Montale scriverne il “coccodrillo” sul “Corriere della Sera”. “L’immatura fine di Albert Camus è una perdita grave per la letteratura francese, ricca di uomini di brillante ingegno, ma non altrettanto di figure animate dallo spirito del nostro tempo…”. Un ricordo in tono minore perché Montale faticava per scarsa preparazione filosofica ad accettare il nichilismo di Camus, mentre dal punto di vista teatrale gli preferiva le opere di Sartre. La storia ha smentito crudamente Montale: il Caligola di Camus è sempre sulla scene italiane, Sartre, e nell’impegno politico e sulle scene, ha perso la partita con la modernità e l’attualità di Camus.
La poesia che aleggia nell’epistolario ci dona con qualche anno di ritardo, rispetto alla pubblicazione francese, questo capolavoro di intimità shakespeariana. Si erano scritti per il capodanno del 1960. Maria lo aspettava con uguali palpiti per i primi giorni dell’anno. Quell’incontro non ci fu lasciando Maria, che morirà nel 1996, in una afflizione tragica. Maria lo avvolge di puro sentimento di attesa con parole scritte nella notte di Natale 1959. “Aspetto il tuo ritorno  per raccontarti, parlarti, dirti amore, ridere insieme. Aspetto il tuo ritorno anche per strigliarti un po’. Penso che ne hai bisogno, ti aspetto perché mi porti un po’ di aria buona in questa cantina parigina talmente umida che la polvere diventa fango all’istante, ti aspetto piena e sorridente con le cosce appesantite dall’assenza del palcoscenico. E aspettandoti ti bacio a perdifiato”.
Albert le deponeva, in anni lontani, nel cuore parole indimenticabili: “Sei rientrata per caso in un vita di cui non andavo fiero e da qualche giorno qualcosa è cominciato a cambiare. Prima di te, fuori di te, non aderivo a nulla. Quella forza per cui ogni tanto mi prendevi in giro è sempre stata solo una forza solitaria, una forza di rifiuto. Con te ho accettato più cose. Ho imparato a vivere, in un certo senso. Per questo forse il mio amore è stato sempre pervaso da una gratitudine immensa”. E la sera del 30 dicembre ’59: “Ecco l’ultima lettera solo per dirti che arrivo martedì in auto. Ti telefono quando arrivo, potremmo già stabilire di cenare insieme martedì: diciamo in linea di massima, salvo imprevisti lungo la strada. Non ho motivo di privarmi del tuo riso e delle nostre serate e della mia patria. Ti abbraccio, ti stringo a me fino a martedì quando ricomincerò”. Il fato aveva deciso diversamente.
Con tensione laica Camus aveva esaltato la figura di Sisifo dannato dagli dei a trascinare in cima a una montagna un grande macigno. La pena infinita era senza premio. L’eroe greco arrivato sulla cima vedeva la pietra rotolare a valle. Ma riprendeva il cammino con un senso etico e di impegno umano esemplari. Camus concludeva: “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Dalla disperazione del vivere aveva trovato solo riparo nell’amore perfetto di Maria. Conclude Catherine Camus: “Le loro lettere fanno la terra più vasta, lo spazio più luminoso, l’aria più leggera semplicemente perché sono esistiti”.