Intervento apparso su “una città’ nel n. 46  col titolo “Il mio nome”. Un intervento che Clotilde Pontecorvo aveva tenuto al seminario “Fare scuola dopo Auschwitz” organizzato dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Modena.

Qui l'intervento integrale


Era il 4 giugno del 1944, a piazza Farnese, a Roma, verso le nove di sera. Poche ore prima erano passati, sotto le finestre di un convento di suore svedesi, soldati tedeschi in ritirata. Noi eravamo una famiglia allargata di 25 persone, ospiti del convento da nove mesi. Appare una jeep da via del Mascherone, accanto a Palazzo Farnese. Si apre per la prima volta dopo tanto tempo il portone. A Roma c’era il coprifuoco, perché c’erano i bombardamenti. Un soldato dice: “Nous sommes les soldats de De Gaulle”.
Il palazzo si illumina. Io avevo sette anni. Non so più se l’ho visto veramente o se me lo hanno raccontato. So che ne ho un ricordo indelebile, stampato nella mia memoria, insieme alle vicissitudini della fuga nella campagna toscana, in un podere sperduto e senza nome, presso il quale ci eravamo rifugiati per quindici giorni. Al ritorno avventuroso a Roma -con carte false che ci aveva dato un “Commissario della razza” di Siena (e che gli abbiamo poi restituito: i successivi documenti ce li fece il Partito d’Azione)- ricordo il trasporto dalla stazione alla casa della signora che ci ospitò e che per questo aveva rischiato moltissimo: una stanza per nove persone. E ricordo soprattutto che mi preoccupava moltissimo la carretta tirata da un cavallo con cui portammo le nostre masserizie. Quando poi -più grande- ho studiato la Rivoluzione francese, ho sempre pensato che quella era la carretta con cui arrivavano i condannati a morte.
Il 5 giugno sono finalmente arrivati i tanto attesi e sospirati Alleati. La mia prima richiesta a mia madre è stata: “Adesso, mamma, posso dire il mio nome?”

La Liberazione per me è legata alla ripresa dell’identità, a non doverla nascondere, al non dover fingere di essere cattolica, con tanto di partecipazione alla messa, ai vespri, con frequentazione della chiesa, cosa che facevamo anche con quella capacità che sanno dimostrare i bambini nell’adattarsi a questo tipo di richieste.
Ricordo che una volta (in quel periodo la mia famiglia ritenne opportuno mandare me e una mia cugina da altre suore che si trovavano dall’altra parte del ponte), tornando a casa, ci fu un bombardamento -eravamo allenati anche a questo- e una suora ci chiese se avevamo avuto paura. Mia cugina che aveva sette o otto mesi più di me e che quindi era più pronta rispose: “No. Abbiamo detto un’Ave Maria”.
In realtà recitavamo delle Ave Maria, ma, come facevano e fanno tutte le altre bambine, insieme le trasformavamo, apportavamo dei cambiamenti e diventavano filastrocche. Era un gioco infantile di difesa. Queste esperienze sono nulla rispetto a quello che hanno rischiato e sofferto altre persone, eppure se ora, come genitore -forse io potrei anche essere nonna- dovessi chiedere a un figlio o un nipote di nascondere la propria identità, di fingerne e dichiararne un’altra, mi sembrerebbe una cosa difficile ed angosciosa.
Quelle due frasi, quella pronunciata dai soldati francesi giunti in jeep a Palazzo Farnese, ambasciata di Francia -Nous sommes les soldats de De Gaulle- e quella pronunciata da me per richiedere la verità su di me, la verità su di noi -Posso dire chi sono?- sono state per me una seconda vita, sono state la possibilità di ritornare ad essere me stessa.
Ovviamente adesso vedo queste cose con l’occhio dell’adulto. Quando le ho vissute da bambina non erano così terribili, erano un gioco. Ero molto più preoccupata del fatto che un cugino che aveva due anni e mezzo -che attualmente insegna in una università americana- non sapesse ancora né leggere né scrivere, e che non avesse imparato ancora queste cose fondamentali.
In qualche modo come bambini si vive e si sopravvive. Ricordo, per esempio, che nelle nostre esplorazioni scientifiche con una cugina che aveva la mia età trovammo dei deliziosi animaletti che mettemmo in una scatolina che portammo ai genitori e che furono identificati come cimici. I bambini riescono anche in una situazione di questo tipo a fare un gioco di esplorazione scientifica.
E anche se non ho subìto traumi, se non ho racconti drammatici ricordo benissimo quell’anno. Le mie figlie dicono sempre: “Come fai a ricordarti di ogni giorno?”. Mi ricordo ogni giorno di quell’anno perché noi bambini partecipavamo molto alla speranza e all’attesa della Liberazione. Anche se nutrivo personalmente molta paura per i bombardamenti ed ero molto meravigliata che gli adulti fossero felicissimi quando gli aerei arrivavano su Roma perché voleva dire che avanzava la Liberazione. Nella distanza, nel ripensamento, ho capito che questa esperienza ha marcato profondamente la mia identità. La mia identità di persona e forse anche di più: la mia identità di insegnante. Certe volte mi è difficile stabilire dove cominciano e dove finiscono le due identità perché le sento molto radicate.

Chi di noi è uscito vivo dalla guerra, dal rischio di sterminio, chi ha sentito racconti in famiglia, chi li ha sentiti anche riportati, credo che non possa non interrogarsi oggi. Io l’ho vissuto nella realtà, ma ho anche potuto ripensarlo molto dopo, forse solo dopo che ho iniziato ad insegnare. Quando ho iniziato ho subito pensato che lo dovevo dire ai miei studenti. Sentivo l’esigenza profonda e il dovere di dichiarare la mia identità come se essa fosse soffocata. Non avere nome, non avere il proprio cognome, avere documenti falsi, doversi nascondere, dovere poi celare e fingere, era qualche cosa che non potevo più ammettere. E in questo senso, come ho detto, sento profondamente il nesso fra la mia identità personale e la mia identità di insegnante.
Ho raccontato questo piccolo episodio, una narrazione minima, perché vorrei dimostrare una prima cosa: il nesso fra identità e narrazione. Ho detto che non so se certe cose le ho viste o le ho sentite raccontare. Ci sono dei miei ricordi di cose che “so” di non avere visto, perché proprio per la mia esperienza di vita ho perso mio padre prima di nascere e quindi non l’ho mai visto. Però ho l’impressione di averlo visto, perché mi è sempre stato raccontato da mia madre, dai miei fratelli più grandi, dai miei parenti.
La necessità di narrare, di far narrare, di riscrivere la propria storia, non credo che riguardi solo chi ha vissuto la guerra o l’ha più profondamente sofferta o che ha vissuto lo sterminio, o ancora chi lo ha subìto attraverso le persone che gli stavano più vicino e neanche, soltanto, i loro figli o i loro nipoti: credo che sia un discorso più generale. È un discorso che riguarda la memoria.

Accanto alla storia che si studia sui libri, accanto a quei modi che riteniamo più validi per rielaborare criticamente la storia, nella storia dell’Olocausto, nella storia della Shoah, nella storia dello sterminio, nella storia del dominio nazista, la memoria è essenziale per la ricostruzione di questa vicenda. La memoria è per definizione legata alla vita delle persone, al vissuto, all’individualità. È legata al recupero di quella individualità che il sistema nazista voleva eliminare. Per questo è così importante che la memoria sia di nuovo al centro come un’attività continua del ricordare. In realtà io lego la memoria alla costruzione dell’identità: non all’identità solo di chi ha subito questa esperienza, ma all’identità di tutti. Perché credo che nel fondo del disegno di sterminio ci fosse anche l’idea di definire la propria identità attraverso l’eliminazione degli altri. E questo mi sembra un elemento assai pericoloso che si è fra l’altro ripresentato molto inaspettatamente in questi ultimi dieci anni. Forse si era sempre ripresentato, ma noi non lo avevamo riconosciuto, almeno come ne siamo consapevoli oggi.
La memoria è l’elemento che costruisce la nostra identità di individui e ci fa partecipi di ciò che ci accomuna agli altri, ci fa -come dice Sandro Duranti- “uguali, ma non troppo”, perché anche nell’identità del nostro gruppo noi manteniamo la nostra individualità, il nostro modo di essere con un’identità personale.
Penso ad una pagina molto bella di Martin Buber, il quale descrive in modo assiomatico ed essenziale perché gli uomini non siano mai tutti diversi al di là di ciò che noi sappiamo sul valore della diversità genetica, della diversità culturale.
Buber dice che, se non fossimo diversi, non ci sarebbe ragione che un’altra persona sia al mondo. Un detto ebraico dice che chi salva una vita salva il mondo e chi distrugge una vita distrugge il mondo. A partire da questo, Buber analizza il valore dell’individualità: è proprio perché ciascuno è irripetibile che ciascuno è il mondo. Afferma anche che la differenza fra Dio e gli uomini è che gli uomini hanno una forma che crea tutte cose uguali mentre Dio usa una stessa forma per creare esseri sempre diversi. Si tratta di una forte insistenza sull’individualità.

A me sembra che, nell’individualità, i gruppi, le comunità rivestano un ruolo fondamentale. In questi ultimi anni ho studiato molto le famiglie, le interazioni familiari. Sto studiando come genitori e figli parlano fra loro quando sono insieme riuniti a tavola. È un elemento molto consolante della cultura italiana l’importanza che ancora questo ha per molte famiglie. Non è stato difficile per noi trovare famiglie che mangiano regolarmente insieme. A me sembra che è dentro la famiglia che cresce l’identità: un modo di crescere di ciascuno che si definisce in rapporto agli altri per somiglianza e per differenza. Mi ha colpito -anche perché in questi ultimi tempi ho condotto uno studio comparativo con alcune famiglie americane- come emerga in una sola conversazione a tavola delle nostre famiglie l’identità di essere italiani, l’identità di questo nostro paese ovviamente con tutte le differenze possibili nel modo di esserlo. Però ho capito quanto sia importante, nella costruzione dell’identità familiare, non solo il mangiare insieme e il cibo, non solo la trasmissione delle tradizioni del mangiare, ma il piacere dei genitori di dare piacere ai figli attraverso il cibo, il tener conto del gusto, del temperamento individuale, in un certo senso l’importanza dell’individualità che appunto passa anche attraverso queste cose.

D’altra parte la famiglia è ancora il luogo privilegiato della comunicazione verticale, della comunicazione fra le generazioni, dove si può costruire una memoria della propria identità come costruzione delle proprie matrici. In famiglia ci si ricorda, ci si racconta, si discute. Tutto ciò si lega molto a problemi che sono presenti ma anche passati: si racconta quello che è stato, anche il passato più presente, quello più immediato. La memoria familiare, generazionale, mi sembra un elemento importantissimo per il mantenimento degli aspetti positivi della memoria. Credo che allora sia altrettanto importante nella nostra opera di educatori mantenere in rilievo il legame che la memoria ha con i testimoni diretti. Ovviamente ormai i testimoni diretti sono pochi perché io, che adesso ho i capelli bianchi, a quell’epoca ero una bambina.
A volte penso che tante cose le ho veramente capite come potevano capirle i bambini e quelli che le hanno vissute sono ormai delle persone anziane. Quindi mi sembra che per noi questa sia forse l’ultima possibilità: siamo l’ultima generazione a raccogliere in senso lato delle testimonianze reali e dirette.
Considero questo aspetto molto importante per renderci conto che l’identità, che è stata in qualche caso negata -si voleva sopprimere- corre ancora oggi rischi molto gravi. Mi sembra che il progetto nazista si sia rivelato come un disegno di costruire al negativo la propria identità. Come se l’identità di gruppi, di etnie o di religioni si possa costruire soltanto eliminando gli altri fisicamente. Oggi non possiamo più ripensare Auschwitz e l’Olocausto senza ricordare la pulizia etnica, gli sterminii, le uccisioni che continuamente avvengono nel mondo. E mi pare che questo problema non sia solo legato a fenomeni isolati: è un fenomeno che persiste e che è diffuso. D’altra parte l’eliminazione che è stata perpetrata con la Shoah ha cominciato a distruggere prima le comunità, i gruppi, poi le famiglie attraverso la separazione e, poi, l’umanità degli uomini per arrivare, infine, alla loro eliminazione fisica. Mi sembra che questo processo corrisponda al processo all’inverso che noi vorremmo rimettere in moto, che vorremmo ottimisticamente realizzare, nella scuola e nelle generazioni future.
Certo, come insegnare Auschwitz? È un problema difficile. Perché per certi versi è indicibile, è difficilmente riducibile alle nostre normali categorie di interpretazione storica. Non è in un certo senso spiegabile. Sono molto preoccupata quando qualcuno lo spiega perché spiegare vuol dire anche giustificare. Fra la spiegazione e la giustificazione il passo è molto breve. Le nostre spiegazioni nascono da giustificazioni. Spiegare significa immettere un evento in una rete che dà un senso. Ma Auschwitz non ha un senso. Ci vuole certo una spiegazione, ci vuole una ricostruzione storiografica, ma questa riflessione è inevitabilmente legata alla comprensione delle persone che l’hanno vissuto, deve passare attraverso la storia delle persone. Io vedo in questo argomento la necessità di una integrazione molto profonda fra memoria e storia. In fondo la critica storica ci ha abituato ad abbandonare la memoria, o almeno a metterla da parte -anche se oggi c’è una grande rivalutazione della memoria- ma a me sembra che la memoria sia altrettanto importante che la storia.